Condannata la lavoratrice che usa i permessi di cui alla L. n. 104/92 per fare un viaggio di piacere invece di assistere il parente disabile per il quale gli era stato concesso il relativo permesso.
E’esclusa la particolare tenuità del fatto, l’obbligo della presenza continua e costante accanto al familiare è stato abrogato, ma le giornate concesse al dipendente sono un’«agevolazione notevole» che non può essere assimilabile alle ferie.
Commette quindi il reato di truffa la lavoratrice che usufruisce dei permessi retribuiti per viaggi di piacere piuttosto che assistere il familiare disabile.
Non può per altro essere condivisa la tesi della ricorrente secondo la quale “la ratio legis della norma non consiste solo nella salvaguardia della persona assistita, ma anche nella realizzazione del completo equilibrio psicofisico del lavoratore impegnato, oltre che nel proprio lavoro, anche nella talora gravosissima cura del soggetto disabile”che comporterebbe, sempre secondo la parte ricorrente l’insindacabilità del datore di lavoro delle modalità con le quali il lavoratore utilizza quei permessi, stante il fatto che “non esiste nessuna norma ne regolamento che stabilisce quali siano le modalità di fruizione dei permessi o che ne disciplini il potere di controllo, ad ulteriore conferma che la libertà di scelta viene rimessa al soggetto avente titolo ad ottenere il beneficio di legge”.
La Suprema Corte giustamente e contro le deduzioni della ricorrente dichiara che: la ratio legis della norma in esame è finalizzata solo ed esclusivamente alla cura e alla tutela della persona handicappata e quindi l’interesse primario di tale assunto è la continuità dell’assistenza da erogare alla persona con handicap grave indipendentemente dall’età o dalle condizioni del figlio assistito.L’istituto del permesso mensile è quindi in stretta e diretta correlazione con le finalità perseguite dalla legge in particolare con quelle a tutela della salute psico-fisica della persona portatrice di handicap.
Si può infatti affermare che la legge è preposta ad assicurare in via prioritaria la continuità delle cure e nell’assistenza al disabile in ambito familiare indipendentemente dall’età e dalle condizioni di salute del disabile.E costituisce un intervento economica integrativo a sostegno della famiglia il cui ruolo resta fondamentale per l’assistenza del disabile.
L’agevolazione dei permessi, “per altro notevole” serve a chi svolge quel gravoso compito di assistenza al disabile per poter svolgere un minimo di vita sociale e cioè praticare quelle attività che non sarebbero possibili quando l’intera giornata è dedicata prima al lavoro e poi all’assistenza del disabile. Ma è pur vero che l’assistenza deve esserci, non è infatti ipotizzabile che il fruitore dei permessi si disinteressi completamente dell’assistenza partendo per l’estero, i permessi infatti non sono e non devono essere considerati come giorni di ferie –a tal fine infatti esiste un istituto giuridico ben preciso- ma solo come una agevolazione che il legislatore ha concesso a chi si è fatto carico di un gravoso compito, ossia di poter svolger l’assistenza in maniera meno pressante e, quindi, in modo da potersi ritagliare in quei giorni in cui è obbligato a recarsi al lavoro, delle ore da poter dedicare esclusivamente alla propria persona.
La condotta dell’imputata in sé è grave e quindi, non può essere ritenuta di particolare tenuità, sia perché è una condotta che è gravata sulla collettività, sia perché come dichiarato dalla Corte territoriale “dimostra la strumentalizzazione della malattia della madre per allungare una programmata vacanza per la quale non le restavano più giornate di ferie…tale comportamento è espressione di un illegittimo malcostume, conseguenza di una mal riposta fiducia nella lealtà del dipendente che dimostra che l’omissione dell’effettuazione di controlli può essere facilmente utilizzata dal dipendente che se ne voglia approfittare per proprio tornaconto personale…”
In buona sostanza, l’abrogazione della condizione dell’assistenza con continuità e in via esclusiva serve solo a chiarire la norma, ma non astravolgerla, pertanto, la Corte di legittimità, nel respingere le censure della lavoratrice, afferma il seguente principio di diritto: «la condotta di chi, durante il periodo in cui usufruisce dei permessi retribuiti ex articolo 33, L. n. 104/92 si rechi all’estero in gita di piacere, commettendo quindi il reato di truffa, non può essere considerato un fatto di particolare tenuità».
Per tali ragioni il ricorso deve essere respinto.
La lavoratrice è stata quindi condannata per truffa all’azienda oltre che alle spese di giudizio.
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