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Licenziamento disciplinare per sottrazione di beni aziendali Sanzione sproporzionata

Commento a Cassazione; Sez. Lavoro 10838, del 4 maggio 2017

Con sentenza del 3 aprile 2014, la Corte d’Appello di Napoli, in riforma della decisione del Tribunale di Avellino, accoglieva la domanda proposta dal lavoratore E.L. nei confronti della D.T.S. S.p.A, avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare irrogatogli per sottrazione di beni aziendali pronunziando l’ordine di reintegrazione e la condanna della Società al risarcimento del danno commisurato alle mensilità maturate dalla data del licenziamento.

La decisione della Corte territoriale deriva dall’aver ritenuto, pur avendo riconosciuto la veridicità del fatto del possesso delle cinque paia di guanti nuovi in uso presso il suo reparto, non configurabile l’ipotesi della sottrazione o comunque l’intenzionalità della condotta, risultando sproporzionata la sanzione espulsiva irrogata.

Per tale decisione ricorre in Cassazione la Società, affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste con controricorso, il lavoratore.

La Società ricorrente denuncia il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ossia il furto dei guanti, ai fini della formazione del proprio convincimento, le dichiarazioni e il comportamento tenuto dallo stesso lavoratore all’atto del controllo a campione subito, nonché, le modalità attraverso le quali il lavoratore nel corso della giornata si era procurato guanti in misura palesemente eccedente le proprie necessità ed il posizionamento degli stessi nella borsa con cui li recava fuori dello stabilimento.

Con il secondo motivo di ricorso, la società datrice di lavoro vuole denunciare, anche sotto il profilo della nullità della sentenza, la violazione dell’obbligo di motivazione della stessa, in particolare, riguardo al giudizio in ordine alla carenza di intenzionalità della sottrazione di beni dell’azienda.

La Suprema Corte dal canto suo ritenendo i due motivi strettamente connessi, decide che possono essere trattati congiuntamente, ma devono ritenersi inammissibili.

La Suprema Corte reputa che il vizio di omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, denunciato con il primo motivo, oltre ad essere formalmente dedotto in termini non conformi al disposto dell’art. 360, n. 5, c.p.c., nuovo testo, nell’interpretazione di questo accolta da questa Corte (cfr. Cass. 22.9.2014, n. 19881), non sembra ravvisabile in termini sostanziali, trovandoci di fronte ad una mera rilettura da parte della Società ricorrente di atti processuali e dichiarazioni testimoniali già tenuti presenti dalla Corte territoriale.

Infatti la Corte territoriale si è pronunziata su entrambi gli aspetti fattuali oggetto della rivisitazione operata dalla Società ricorrente: la reazione del lavoratore all’atto del controllo e le regole di distribuzione dei guanti.

Sul primo, intorno al nodo cruciale della riconducibilità della condotta del lavoratore all’intento dell’appropriazione e del trafugamento di materiale aziendale; e sul secondo, il convincimento maturato in termini negativi che però risulta sorretto da una motivazione, ossia dalla considerazione dell’atteggiamento del lavoratore all’atto del controllo, atteggiamento valutato idoneo a riflettere la plausibilità del rinvenimento nello zaino di più paia di guanti, plausibilità avvalorata però dall’impossibilità della Società di dar conto delle consegne effettuate ai lavoratori ed arrivando alla conclusione del mancato raggiungimento della prova certa dell’intento “trafugatorio” ed alla negazione, pertanto, della riferibilità della condotta alla norma collettiva invocata e della proporzionalità della sanzione irrogata, così da legittimare la Cassazione della sentenza impugnata.

In sostanza la Corte, non ritenendo provata l’intenzionalità della condotta del lavoratore, ossia la volontà di voler in realtà sottrarre i guanti per farne un uso diverso da quello previsto, ha ritenuto la sanzione espulsiva esorbitante rispetto al danno arrecato all’azienda e per tali motivi ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla Società datrice di lavoro che voleva ad ogni costo la conferma del licenziamento del dipendente.

La Suprema Corte quindi, ritiene che il ricorso va dunque dichiarato inammissibile e condanna alle spese la società ricorrente che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi, oltre spese generali al 15{337a32c266fa313013ee5f2ebb2343de8037a626bf240e7785350e77a1e683bc} ed altri accessori di legge.

Dott. Carlo Pisaniello

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