Quando si parla di job acts spesso si pensa ad una legge oppure ad un corpus normativo, ma non è così.
Per job act si intende un insieme convulso e disordinato di normative di novellazione su materie lavoristiche che il governo ha voluto modificare e quindi di una serie di decreti legislativi unicamente progettati diretti a mutare le regole giuridiche esistenti.
I job acts sono precisamente costituiti dai DD.Lgss. nn. 22, 23, 80, 81, 148, 149, 150 e 151 del 2015 e spaziano dalla tutela dei disoccupati al licenziamento, dai contratti di lavoro agli organi di vigilanza ispettiva, dai congedi per migliorare le condizioni di vita del lavoratore al telelavoro.
Per la questione disciplinare, a noi interessa esplorare il D.Lgs. 4 marzo 2015 n. 23 “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”.
Si tratta appunto di un decreto attuativo che regolamenta la tutela dei licenziati per motivi soprattutto di ordine disciplinare e che pertanto si contrappone alla tutela già prevista dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 nonché dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604.
Dico ordine disciplinare perché non sempre il licenziamento per giusta causa segue l’esperimento della procedura disciplinare; in talune situazioni la scavalca ritenendo il fatto contestato assai grave e quindi inutilmente valutabile ai fini sanzionatori recuperatori.
Infatti l’art. 7 della legge delega n. 183/2014 autorizzava il Governo unicamente a: “adottare (…) uno o più decreti legislativi (…) in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali”, prevedendo un “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio … escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamenti disciplinari ingiustificati, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”.
L’applicazione espressa è di ordine temporale e riguarda tutti i contratti a tempo indeterminato stipulati dal 7 marzo 2015 ovvero tutti i lavoratori a tempo indeterminato che, non avendo la propria azienda il requisito dimensionale dei 16 dipendenti per Comune (commi 8 e 9 dell’art. 18 St. Lav.) prima della vigenza del decreto, la raggiunga successivamente alla vigenza, attraverso la stipula di nuovi contratti a tempo indeterminato; in questo la nuova tutela permane anche se il requisito dimensionale dovesse ridursi subito dopo (questa è la tesi maggioritaria) ed inoltre tutti i convertiti o trasformati dal 7 marzo 2015.
Il requisito dimensionale si calcola secondo l’impiego medio annuale dei lavoratori (c.d. normale occupazione) e le tipologie contrattuali stipulate (si V. anche art. 27, D.Lgs. n. 81.2015 nonché Cass., Lav., 14 dicembre 2010 n. 25249 e 21 ottobre 2013 n. 23771).
Questa normativa si applica a tutti i lavoratori non dirigenti privati, anche alle organizzazioni sindacali (cioè che non operano nella pubblica amministrazione); agli inizi della vigenza, la dottrina dubitò sulla reale applicazione del decreto e alcuni sindacati organizzarono proteste per ottenere una deroga applicativa ai lavoratori pubblici, ma il governo benché la promise non la pubblicò mai.
Lo fece la giurisprudenza attraverso una esegesi di diritto.
Tutto nasce da quanto stabilito dall’art. 51, co. 2, D.Lgs. n. 165/2001: “La legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”, ciò significa che l’art. 18 si applica ai medesimi licenziamenti disciplinati dal presente decreto ai dipendenti pubblici e ai privati assunti prima del 7 marzo 2015 presso aziende con requisito dimensionale.
Ai privati privi del requisito dimensionale assunti prima del 7 marzo 2015 si applicano le tutele obbligatorie previste dalla legge n. 604/1966.
I privati privi del requisito dimensionale assunti dal 7 marzo si applica il decreto come ai privati assunti prima ai quali non si applica il decreto finché non raggiungono al 7 marzo il requisito dimensionale.
La dottrina ritiene, per lex specialis, che ai sindacalisti continui comunque ad applicarsi la tutela dell’art. 18.
In definitiva il pastrocchio legislativo comporta oggi tre tutele con l’ovvio scopo di attendere l’esaurimento dei lavoratori fortunati (tutelati dalle due precedenti norme) per poi applicare la tutela crescente a tutti indistintamente tranne ai dirigenti, licenziabili solo per giusta causa.
Del resto il decreto 23 disciplina i licenziamenti economici, che nella P.A. sono regolati dall’art. 34 del D.Lgs. n. 165/2001 (gestione del personale in disponibilità); per quanto riguarda i licenziamenti disciplinari, parimenti troviamo la regolamentazione della materia per la P.A. negli artt. 55 e ss. dello stesso decreto 165.
Ciò protende verso l’inapplicabilità del decreto 23 ai licenziamenti economici e disciplinari della P.A..
La normativa in esame prevede due forme di tutela, una reintegratoria e una indennitaria, al pari di quella già prevista dall’art. 18 (reale e obbligatoria).
In caso di licenziamento nullo perché discriminatorio (art. 15 St. Lav.) ovvero per altri motivi ai quali la legge riconduce la nullità (in costanza di gravidanza fino ad un anno dopo, vendicativo, per rappresaglia, ritorsivo, perché insussistente la disabilità psico-fisica addebitata al lavoratore, in frode alla legge art. 1344, per motivo illecito art. 1345, violazione delle regole di sciopero, scadenza del comporto), quando il licenziamento è intimato oralmente e non per iscritto, il giudice deve disporre la reintegra, ma se il lavoratore non riprende servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità sostitutiva, il rapporto di lavoro si risolve (per rinuncia).
Con l’ordine di reintegra, il giudice condanna il datore all’indennità risarcitoria (costrutto non giuridicamente corretto da parte del legislatore) parametrando la somma all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto l’aliunde perceptum, comunque mai inferiore a cinque mensilità oltre i contributi previdenziali e assistenziali.
L’indennità sostitutiva è fissata in quindici mensilità senza contribuzione previdenziale.
La richiesta deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.
Tralasciando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il presente decreto disciplina il giustificato motivo soggettivo (legge 15 luglio 1966 n. 604 che riconduce all’art. 7 St. Lav.) e la giusta causa (art. 2119 C.C., quando il rapporto di lavoro non può proseguire neppure provvisoriamente per il venir meno della fiducia).
Nelle ipotesi diverse da quelle appena esaminate, il datore può licenziare il dipendente sia per giustificato motivo soggettivo che per giusta causa, ma se il giudice accerta che non ricorrono gli estremi per applicare queste motivazioni, dichiara comunque estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità senza contribuzione previdenziale pari a due mensilità per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due anni e non superiore a dodici anni di servizio.
Il giudice però, non potrà estinguere il rapporto di lavoro in questo caso se il fatto materiale addebitato al lavoratore risulterà insussistente (non vero, non realizzato, del tutto fantasioso) ed allora dovrà disporre la reintegrazione nel posto di lavoro e il pagamento di un’indennità risarcitoria da liquidarsi dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione.
L’indennità da computarsi dalla data del licenziamento fino all’ordine di reintegra non potrà superiore le dodici mensilità, successivamente sarà corrisposta un’ulteriore indennità mensile fino all’effettiva reintegra, sottratto l’aliunde perceptum (l’aliunde non verifica solo quanto percepito per lo svolgimento di un lavoro ma anche l’ipotetico cioè quanto avrebbe potuto percepire accettando un lavoro effettivamente offerto), oltre i contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione.
Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato senza indicare i motivi sottesi, neppure quando vengono chiesti, l’art. 2 della legge n. 604/1966 disponeva l’inefficacia, così come quando vi era violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970.
Invece il decreto in esame, in questi casi, dispone l’estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento e la condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità senza contribuzione previdenziale di importo pari ad una mensilità per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per la nullità o per l’insussistenza.
Il datore può revocare il licenziamento a seguito di precise contestazioni stragiudiziarie opposte dal lavoratore.
In questo caso entro il termine di quindici giorni dalla ricezione dell’impugnazione, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità.
Il datore o il lavoratore possono anche conciliare presso le commissioni di conciliazioni o arbitrali situate nelle direzioni provinciali del lavoro ovvero presso le commissioni di certificazioni.
L’importo transattivo che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito, privato della contribuzione previdenziale, deve essere pari ad una mensilità per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare.
L’accettazione dell’assegno estingue il rapporto e ogni ulteriore azione giudiziaria (acquiscenza).
Anche in caso di licenziamento collettivo intimato in forma orale, per mobilità o riduzione di personale, si applica il regime dettato; diversamente continuerà ad applicarsi la legge n. 223/1991.
L’ultima previsione del decreto esclude l’applicazione del rito Fornero che, quindi, si assesta esclusivamente nelle previsioni di cui all’art. 18 St. Lav..
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