Commento a Sentenza Tribunale di Termini Imerese n. 465/2108
La sentenza del Tribunale di Termini Imerese (che non abbiamo potuto analizzare nel dettaglio poiché non disponibile) ha visto la condanna di un medico, Direttore dell’U.O. che ha imposto ad una paziente una trasfusione contro parere contrario per motivi religiosi, per il tramite di un infermiere (esecutore della trasfusione). Pronuncia non nuova poiché già affrontata in altre sentenze anche di Cassazione, ma che ribadisce con fermezza e nel rispetto del diritto, che prima di ogni cosa sussiste l’autodeterminazione del paziente.
Una donna giovane di 25 anni alla tredicesima settimana di gravidanza, viene ricoverata nel reparto di ostetricia dell’ospedale di Termini Imerese con diagnosi di “minaccia di aborto, iperemesi gravidica, squilibrio elettrolitico”. Nel corso del ricovero ospedaliero viene ripristinato l’equilibrio idro-elettrolitico della gestante e verificato il normale accrescimento del feto, ma vengono riscontrate delle non meglio precisiate turbe psichiche, verosimilmente di natura organica e pertanto non necessitanti di terapia farmacologica.
Dopo circa una settimana, ristabilite le condizioni generali della paziente, la stessa viene dimessa, ma dopo circa una settimana viene di nuovo ricoverata per l’insorgenza questa volta di una sintomatologia caratterizzata da “vomito e dolore addominale a cintura nella regione dell’ipocondrio destro”.
Durante il nuovo ricovero, nell’eseguire la visita ostetrica si evidenziava un quadro nella norma e l’ecografia evidenziava “la normale vitalità del feto, la normale quantità del liquido amniotico e l’impervietà del canale cervicale”. Ma all’esame obiettivo generale la gestante presentava “dolore in sede epigastrica ed ipocondrio sn con irradiazione posteriore”.
Ad una successiva ecografia, la paziente presentava una “colecisti distesa con microlitiasi intraluminale” e a livello di esami ematici si evidenziava un aumento degli enzimi pancreatici, epatici e della bilirubina.
Viene quindi deciso un intervento chirurgico laparoscopico per colecistectomia. L’intervento non evidenzia particolari problemi, come conferma anche il primo controllo post operatorio.
Alcune ore dopo la donna inizia però ad accusare contrazioni uterine forti e viene sottoposta quindi ad una nuova consulenza ostetrica con ecografia che evidenzia questa volta una frequenza cardiaca fetale “gravemente o persistemente bradicardica”.
Il medico ecografista suggerisce una rivalutazione della frequenza cardiaca a breve distanza che non viene eseguita in seguito alla decisione dell’equipe medica di procedere ad un nuovo intervento chirurgico laparoscopico, che evidenzia, all’interno del peritoneo, “la presenza di sangue subfrenico destro e sinistro e presenza di sanguinamento che viene arrestato con coagulazione e punto transfisso transparietale”. Alla paziente viene quindi posizionato un drenaggio di Penrose, dopo di che viene rinviata al reparto.
Il giorno successivo all’intervento, ad un controllo Tac dell’addome, si evidenzia un aborto interno e un decremento significativo dell’emoglobina e dell’ematocrito (Hb 5,3). I medici decidono quindi per una trasfusione urgente, ma la paziente, in ossequio alla sua fede religiosa (essendo Testimone di Geova) rifiuta il consenso alla trasfusione avendo per altro già in precedenza nominato un amministratore di sostegno.
I medici, contrariati, informano il magistrato di turno presso la Procura della Repubblica sulla necessità della trasfusione e, senza attendere la formale pronuncia del P.M. di turnom, procedono alla trasfusione attraverso l’ordine imposto dal Primario agli infermieri in turno.
Il giorno dopo, la paziente viene sottoposta a raschiamento della cavità uterina e successivamente dimessa.
Dalla sentenza non si evincono profili di responsabilità sulle condotte poste in essere dai sanitari per quello che riguarda la morte del feto.
Infatti i quattro medici coinvolti sono stati tutti assolti dal capo di imputazione relativo all’aborto colposo previsto dall’articolo 17 della legge 194/78, mentre solo uno di loro, nella fattispecie il primario, è stato condannato per il reato di violenza privata.
Nella documentazione sanitaria sequestrata dal magistrato nell’atto delle indagini nel reparto di chirurgia generale, risultavano le seguenti annotazioni: “presa visione degli esami ematochimici si prepara emotrasfusione urgente che la paziente rifiuta ostinatamente contro parere dei sanitari”; “alla luce dell’emocromo effettuato stamattina (5,3 Hb), considerato lo stato di necessità specifico, tenuto conto del credo religioso si informa il magistrato di turno del Tribunale di Termini Imerese e si procede ad emotrasfusione di emergenza”.
In dibattimento, il P.M. quel giorno di guardia presso la Procura ha riferito che, il medico dell’ospedale dove era ricoverata la paziente,“le aveva rappresentato l’imminente pericolo di vita della donna e del feto” (che verrà poi accertato che in realtà era già abortito) e di avere spiegato al medico che il pubblico ministero non “è l’autorità competente ad autorizzare un trattamento sanitario coattivo”.
Viene poi ricostruito in dibattimento il colloquio avvenuto in quei giorni tra il primario e la paziente (parte lesa nel procedimento) in cui si evidenziava la necessità della trasfusione, poi eseguita coattivamente; a quanto pare il medico sembra aver detto alla donna (in condizioni cliniche precarie), di aver ottenuto l’autorizzazione del magistrato di turno da lui contattato (fatto non risultato poi vero), per eseguire la trasfusione contro la volontà della stessa paziente, informazione poi ripetuta anche dall’infermiere esecutore della trasfusione mentre la sua collega la immobilizzava attraverso una contenzione manuale: “l’infermiera le teneva ferme le ginocchia e il braccio mentre la signora piangeva ripetendo di non volere la trasfusione”. Presente ai fatti era la coordinatrice infermieristica che ha confermato il tutto.
Le motivazioni del Tribunale di Termini Imerese (sentenza 30 maggio 2018, n. 465) a proposito della decisione di procedere a un atto sanitario coattivo senza il preventivo consenso, affermano che “il medico ha agito come mandante dell’esecuzione della trasfusione affidata poi ai due infermieri”.
Per altro non si possono neanche evocare, a difesa della condotta dei sanitari, i fatti come una terapia salvavita, in quanto i valori dell’ematocrito e dell’emoglobina (come evidenziato dagli esami ematochimici) stavano risalendo spontaneamente, dopo l’intervento chirurgico che aveva provveduto a bloccare il sanguinamento e agli effetti della terapia farmacologica prescritta.
La donna è stata quindi costretta a subire una trasfusione di sangue in base a una falsa dichiarazione del primario che ha riferito una inesistente autorizzazione del PM di turno a cui era stato prospettato il pericolo di vita del feto quando la donna aveva già abortito.
Correttamente il magistrato in udienza ha ben specificato di essere, in quel preciso momento, del tutto privo di poteri di intervento su trattamenti sanitari obbligatori che, a norma di Costituzione (artt. 2, 32), devono essere specificamente previsti da una legge ordinaria dello Stato e non come nel caso di specie, in quanto non esiste una legge dello Stato che imponga una trasfusione ematica a pazienti dissenzienti.
Il rifiuto quindi, oggettivabile ed oggettivato (vista anche la scelta di farsi assistere da un amministratore di sostegno) al trattamento sanitario senza il proprio consenso, prevale su ogni altro aspetto, il richiamo abusivo alla scriminante dello stato di necessità, ex art. 54 codice penale, osservano i giudici siciliani, non è comunque invocabile, poiché non trattasi di stato di necessità derivante da una situazione durante la quale non era stato possibile acquisire il consenso della paziente perché non cosciente; qui trattasi di un caso nel quale la paziente era nelle condizioni di poter decidere nel pieno delle proprie facoltà intellettive ed alla quale è stato fatto un vero e proprio atto di violenza, “non esiste nel nostro ordinamento un soccorso di necessità cosiddetto coattivo, che appunto possa travalicare la contraria volontà dell’interessato, posto che il perimetro della scriminante stato di necessità, alla luce dei principi costituzionali, è rigidamente circoscritto al fatto che il paziente non sia in grado di prestare il proprio dissenso o consenso”. Sulla base quindi di tali considerazioni la trasfusione praticata alla donna è stata ritenuta “del tutto ingiustificata”.
Risulta quindi integrato secondo il tribunale il reato di violenza privata che tutela la libertà psico-fisica dell’individuo e i cui elementi, nel caso di specie sono stati tutti presenti: la “condotta violenta e l’evento finale in tutte le manovre poste in essere al fine di introdurre l’ago cannula in vena e quindi nel corpo del paziente”, mentre l’evento di coazione è consistito “nell’immissione in circolo del sangue all’interno del suo corpo e quindi nella emotrasfusione”.
I giudici Siciliani hanno usato parole molto forti nei confronti del rapporto che sussiste tra medici e infermieri anche se quest’ultimi non sono stati coinvolti nel giudizio, si afferma infatti che il primario ha agito quale “mandante della violenza privata, disponendo che alla paziente fosse praticata, nonostante il suo dissenso l’emotrasfusione”. Il medico quindi come “mandante” e gli infermieri evidentemente “come esecutori”.
Il primario ha quindi sfruttato la sua posizione gerarchica per imporre agli infermieri, evidentemente completamente soggiogati ed ignari delle proprie responsabilità infermieristico-legali, manovre atte a eseguire una trasfusione di sangue senza il precipuo consenso della paziente, atto decisamente grave e che spiace non sia stato preso nella giusta considerazione dai giudici del tribunale di prime cure del capoluogo, ci saremmo aspettati una condanna inflitta anche agli esecutori materiali dell’atto coercitivo oltreché per aver abusato della professione di medico visto che la trasfusione rimane comunque, anche in circostanze di emergenza, un atto medico e non infermieristico.
Avremo sicuramente modo di ritornare sull’argomento poiché prevediamo un sicuro ricorso in Appello nel tentativo di stravolgere una sentenza che non lascia dubbi sulla non regolarità delle procedure adottate dai sanitari in merito al caso concreto. Avremo quindi modo di analizzare molto più approfonditamente la questione quando anche la Corte territoriale si pronuncerà sulla questione.
Dott. Carlo Pisaniello
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