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PERCHE’ FIRMARE LA PETIZIONE PROMOSSA DALL’A.A.D.I. PER USCIRE DAL COMPARTO

Gli interessi sindacali confliggono con il diritto del lavoro

Esegesi del Prof. Mauro Di Fresco

Non stupisce che Nursind a differenza di Nursing Up, remi contro gli interessi degli infermieri e menta spudoratamente affermando anche nelle  pagine della nostra Associazione, per tramite dei propri esimi esponenti, che uscire dal comparto è impossibile ed è una idea stupida ed inutile, quando loro stessi sbandierano ai quattro venti (come sempre a chiacchiere) che “Nursind propone l’istituzione di un contratto infermieristico autonomo”. Non c’è da fidarsi di un sindacato che parla due lingue opposte!

petizione

I sindacalisti hanno paura della petizione proposta per uscire dal contratto degli operai (comparto) perché perdendo le tessere degli infermieri, dei tecnici di laboratori, dei tecnici di radiologia, dei fisioterapisti, insomma delle professioni sanitarie, perderebbero anche molte poltrone, le posizioni organizzative (che si trovano solo nel comparto), i distacchi sindacali, il potere contrattuale determinato dalla forza lavoro che può seriamente minacciare ed attuare uno sciopero efficace, gli equilibri delle gerarchie sindacali e chissà cos’altro ancora.

In verità sono anni che spiego ai miei corsi ECM sul demansionamento l’opportunità giuridica più che professionale di uscire dal comparto.

L’art. 2105 C.C. recita: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.

In maniera più esaustiva, per il pubblico impiego cioè per la fattispecie in esame, l’art. 53 del D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165 così prevede: “Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi. Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 … In ogni caso, il conferimento operato direttamente dall’amministrazione, nonché l’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che svolgano attività d’impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente … Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi … In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti … Gli enti pubblici economici e i soggetti privati non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi … All’accertamento delle violazioni e all’irrogazione delle sanzioni provvede il Ministero delle finanze, avvalendosi della Guardia di finanza …”.

Gli artt. 60-63 indicati dal succitato D.P.R. del 1957, stabiliscono quanto segue: “L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del ministro competente. L’impiegato che contravvenga ai divieti viene diffidato dal ministro o dal direttore generale competente, a cessare dalla situazione di incompatibilità. La circostanza che l’impiegato abbia obbedito alla diffida non preclude l’eventuale azione disciplinare. Decorsi quindici giorni dalla diffida, senza che la incompatibilità sia cessata, l’impiegato decade dallo impiego”.

In poche parole nel Comparto vige il vincolo di esclusività cioè se l’infermiere svolge altra attività fuori dall’orario di lavoro, viene licenziato perché il suo padrone esige esclusiva devozione; nella Dirigenza, invece, il professionista può lavorare fuori la struttura datoriale, anzi, se il padrone lo vuole tutto per sé, deve corrispondergli una congrua indennità di esclusività (anche 1.800 euro mensili).

La succitata normativa deve essere combinata con l’art. 2229 C.C. e quella speciale di cui al Decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946 n. 233 e del Decreto del Presidente della Repubblica 5 aprile 1950 n. 221 perché, insieme, definiscono la professione infermieristica come “intellettuale” cioè protetta dall’abilitazione statale, da corsi precipui e unici, dalla fascistoide (ma efficace) corporazione delle arti sanitarie, affinché non chiunque possa esercitarla e gli esercenti possano autonormarsi, controllarsi e proteggersi da interferenze, condizionamenti e inquinamenti abusivi esterni.

Precisamente la Legge 29 ottobre 1954, n. 1049 ha istituito i “Collegi delle infermiere professionali, delle assistenti sanitarie visitatrici e delle vigilatrici d’infanzia” e rimanda la disciplina dell’albo professionale al D.L.C.P.S. 13 settembre 1946 n. 233 intitolato “Ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell’esercizio delle professioni stesse”.

Il D.L.C.P.S. surriferito è stato regolamentato dal D.P.R. 05 aprile 1950 n. 221 (G.U. 16 maggio 1950 n. 112 S.O.) che all’art. 13 stabilisce: “L’iscrizione nell’albo dà diritto al libero esercizio della professione, oltreché nella provincia cui l’albo si riferisce, anche in tutto il territorio della Repubblica …”.

Del resto, come precisano i siti dei Collegi IP.AS.VI., l’albo garantisce la professionalità degli infermieri a beneficio dei cittadini (cioè degli infermieri liberi professionisti, visto che la professionalità degli infermieri subordinati è garantita dal datore di lavoro) e tutela la professionalità attraverso il potere disciplinare (sempre degli infermieri liberi professionisti, visto che il potere disciplinare può essere esercitato per gli infermieri subordinati dal datore di lavoro).

L’albo garantisce che gli infermieri liberi-professionisti siano accreditati cioè in possesso dei titoli abilitanti l’esercizio professionale esclusivamente a tutela della cittadinanza, onde evitare che stipulino contratti d’opera professionale con falsi infermieri abusivi e ciò possa cagionare danni ai pazienti; in poche parole l’albo esplica una funzione di protezione sociale nei confronti della collettività (Cass., III Civ., 23 giugno 2016 n. 12996) ma tale protezione è garantita dalla struttura sanitaria e non dai singoli professionisti perché, a differenza del rapporto d’opera professionale, i pazienti che contattano la struttura sanitaria, stipulano il c.d. contratto di spedalità con la struttura stessa e non con i lavoratori interni che, si ripete, sono strumenti finalizzati ad adempiere l’obbligazione contrattuale che consiste nella prestazione di spedalità (ex pluribus: Cass., III Civ., 10 febbraio 2016 n. 3261; 23 febbraio 2016 n. 3505 e 20 aprile 2016 n. 7768).

Difatti, che l’albo tuteli i clienti dei liberi professionisti, lo afferma, per esempio, anche lo stesso Collegio di Torino nel proprio sito ufficiale: “il Collegio l’IP.AS.VI. tutela i cittadini che fruiscono dei servizi erogati dai Professionisti iscritti”, non potendo tutelare i cittadini che fruiscono dei servizi erogati da una struttura sanitaria per quanto detto.

Quando l’esercizio di un’attività professionale è condizionato all’iscrizione in un albo o elenco”, stabilisce l’art. 2231 C.C., “la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento della retribuzione. La cancellazione dall’albo o elenco risolve il contratto in corso, salvo il diritto del prestatore d’opera al rimborso delle spese incontrate e a un compenso adeguato all’utilità del lavoro compiuto”.

L’art. 2231 C.C., appena citato, permette di comprendere la portata dell’essere professionista.

Organismo di diritto pubblico che svolge questa funzione, anche a tutela della collettività attraverso l’albo professionale, è il Collegio che esiste per la libera-professione e, attualmente, se l’art. 2, co. 3, L. n. 43/2006 che abbiamo impugnato resisterà al sindacato di incostituzionalità, anche per i dipendenti.

Comunque il sillogismo “intellettualità = professionalità” è indubbio se non fosse, appunto, per il comparto che snatura la nostra essenza di professionisti e ci degrada ad operai.

Difatti, il contratto d’opera professionale, ai sensi dell’art. 2222 C.C., è così definito: “Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV”, noi siamo subordinati perché stiamo nel comparto e questa situazione di empasse giuridica crea solo confusione e ci pone in situazione ibrida che non ci permetterà mai di affrancarci veramente dal nostro retaggio ausiliario.

Gli stessi magistrati hanno difficoltà a trattare i nostri casi: nel penale ci condannano come i medici, nell’erariale ci condannano come gli amministrativi, nel civile ci condannano a metà strada, una media tra il medico e un operaio; nella disciplinare ci licenziano come gli operai in caso di doppio lavoro ma ci giustificano se riscontrano l’esimente medica (art. 2236 C.C.)

Il vincolo di esclusività è stato oggetto di disamina in materia collegiale professionale: la stessa Suprema Corte di Cassazione, Sez. Lav., 16 aprile 2015 n. 7776, ha espresso il seguente principio di diritto: “Il Consiglio di Stato con parere reso il 15 marzo 2011 nell’affare n. 678/2010, ha affermato che quando sussiste il vincolo di esclusività con il datore di lavoro, l’iscrizione all’albo è funzionale allo svolgimento di un’attività professionale svolta nell’ambito di una prestazione di lavoro dipendente, pertanto la relativa tassa rientra tra i costi per lo svolgimento di detta attività che dovrebbe, in via normale, al di fuori dei casi in cui è permesso svolgere l’attività lavorativa, gravare sull’ente che beneficia in esclusiva dei risultati di detta attività. Il Consiglio di Stato, per giungere a tale soluzione, ha fatto espresso riferimento all’indirizzo espresso da questa Corte nella sentenza 20 febbraio 2007 n. 3928 che ha stabilito che quando un’attività professionale è resa a favore di un datore di lavoro che vincola il proprio dipendente, quanto versato a titolo di quota professionale a favore dell’albo, deve essere ripetuta dal datore di lavoro”.

Sulla scorta del principio di esclusività del rapporto di lavoro, la I sezione del Consiglio di Stato con parere n. 678 del 23 febbraio 2011, citato dalla sentenza appena riportata, si è interessata di stabilire se un dipendente pubblico in full-time, avvocato, fosse obbligato o meno a pagare la quota di iscrizione al proprio Ordine professionale: “… dopo l’assunzione, il rapporto si configura come un rapporto di durata nel quale la prestazione professionale del componente dell’avvocatura civica è resa continuativamente, anno dopo anno, nell’interesse dell’ente di appartenenza in via esclusiva, dovendo gli interessati, per patrocinare innanzi le varie Autorità giudiziarie, essere iscritti al relativo Ordine professionale. Pertanto, l’iscrizione è funzionale allo svolgimento di un’attività professionale svolta quando sussista il vincolo di esclusività, nell’ambito di una prestazione di lavoro dipendente. Ne consegue che i costi per lo svolgimento di detta attività dovrebbero, in via normale, al di fuori dei casi in cui è permesso svolgere altre attività lavorative, gravare sull’amministrazione che beneficia in via esclusiva dei risultati di detta attività. Ciò corrisponde ad un principio generale ravvisabile anche nell’esecuzione del contratto di mandato, ai sensi dell’art. 1719 C.C., secondo cui il mandante è obbligato a tenere indenne il mandatario da ogni diminuzione patrimoniale che questi abbia subito in conseguenza dell’incarico … Nel lavoro dipendente si riscontra comunque l’assunzione, analoga a quella che sussiste nel mandato, a compiere un’attività per conto e nell’interesse altrui. PQM si esprime il parere che il ricorso debba essere accolto”.

Si evince, quindi, che le soluzioni offerte dall’esegesi giuridica e dalla giurisprudenza in materia, non contemplano l’esistenza di una figura ibrida come quella dell’infermiere nel Comparto; o siamo professionisti o siamo operai.

Inoltre, appare opportuno segnalare un altro paradosso che priva di fondatezza qualsivoglia tesi avversaria.

L’infermiere dipendente è disciplinato dalla contrattazione collettiva di comparto cioè quella parte della contrattazione sanitaria che riguarda il personale non dirigenziale non laureato, mentre nella contrattazione per la dirigenza sono inclusi i medici, i biologi, i sociologi, gli psicologi, gli avvocati, gli ingegneri, insomma le categorie laureate.

Si tratta, come detto, di un paradosso perché nel comparto tutti i lavoratori sono vincolati dall’esclusività e, quindi, la subordinazione obbliga il datore di lavoro a manlevare i dipendenti da ogni onere che grava sulla prestazione lavorativa, mentre nella dirigenza prevale la libertà di svolgere attività presso terzi, salvo congrue indennità di esclusività.

Questa netta dicotomia viene sconfessata e volutamente travisata nel caso dell’infermiere perché si pretende l’esclusività, requisito del comparto e, nel contempo, si pretende anche l’iscrizione all’albo, requisito della dirigenza quale espressione della libertà professionale.

Noi dell’AADI siamo per l’iscrizione al Collegio se però la professione verrà valutata e trattata come merita e come stabilisce la legge per tutte le altre professioni; siamo stanchi della continua discriminazione che ci relega ai posti più infimi della collettività professionale italiana.

La discriminazione operata sul nostro sangue e sui nostri sacrifici va corretta!

La realtà, purtroppo, è diversa perché gli interessi sindacali che si accalcano sulla mangiatoia sono tanti.

L’infermiere, benché oggi professionista laureato e dignitosamente al pari di tutti i profili dirigenziali, si trova nel comparto cioè insieme agli autisti, gli ausiliari, gli idraulici, gli elettricisti, gli ascensoristi, i cuochi, ecc.; questi sono i colleghi dell’infermiere, questo è quello che vogliono i sindacati.

Quindi l’infermiere attualmente non potrebbe mai optare per l’attività libero-professionale né auspicare a vedersi riconosciuta la giusta retribuzione e il giusto ruolo sociale al pari di tutti gli altri veri professionisti.

Non vi può essere, quindi, un obbligo di iscrizione all’albo finché la natura subordinata vincola l’infermiere a percepire un’unica statica retribuzione impedendogli di sviluppare liberamente le proprie capacità professionali nel proprio tempo libero, né ci potrà essere un giusto riconoscimento economico finché lasceremo fare agli altri e non firmeremo anche noi questa petizione.

Oggi l’infermiere ha una diversa consapevolezza della realtà sociale e giuridica che lo circonda e si è stancato di essere stigmatizzato come un fannullone e di sentire dai mass-media che solo “i medici hanno lottato tutta notte per strappare dalla morte i pazienti”, quando sappiamo bene che la notte molti medici dormono sui letti messi a disposizione dal padrone e gli infermieri vigilano in piedi malretribuiti e pure sfruttati.

Nell’ambito esterno, cioè presso le strutture sanitarie pubbliche e private, è il datore di lavoro che garantisce la professionalità ovvero il possesso del titolo di studio del proprio personale, sia in virtù dell’art. 1228 C.C. (privati) che degli artt. 22 e 23 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 (pubblici) e, nel caso di responsabilità professionale si surroga nei confronti del terzo in manleva dei propri dipendenti in virtù del principio di immedesimazione organica fondata dalla contemporaneità del rapporto contrattuale che lega la struttura ai pazienti e del c.d. contatto sociale che lega gli infermieri ai pazienti (ex plurimis: Suprema Corte di Cassazione, III Civ., 20 aprile 2016 n. 7768; 10 febbraio 2016 n. 3261; 23 febbraio 2016 n. 3505; SS.UU. 11 gennaio 2008 n. 5577; 21 giugno 2004 n. 11488; 29 settembre 2004 n. 19564; SS.UU. 27 giugno 2002 n. 9346 in Dottrina – Giannini, Organi della teoria giuridica generale, Enc. dir., pag. 46; 22 gennaio 1999 n. 589; 11 aprile 1995 n. 4152; 27 maggio 1993 n. 5939; 1 febbraio 1991 n. 977; 1 marzo 1988 n. 2144).

Infatti uno dei requisiti essenziali per la partecipazione a qualsiasi procedura concorsuale, è, appunto, il possesso del titolo di studio e l’iscrizione al Collegio professionale: questo ci rende professionisti.

Ed allora cosa ci stiamo a fare con chi non ha un ordine professionale?

Perché prendiamo il loro stesso identico stipendio?

Anzi l’idraulico guadagna più di noi!

C’è qualche sindacalista che può rispondermi?

Stiamo nel comparto perché i sindacati hanno deciso che ci dobbiamo stare,

per i loro interessi non per i nostri.

FIRMA ANCHE TU LA PETIZIONE https://www.change.org/p/sindacati-infermieri-uscire-dal-comparto/w

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