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OPI Roma: Sicuri che questa sia la nostra priorità?

Nella rivista Infermiere Oggi n. 1/2023 a cura del dott. Maurizio Zega, Presidente O.P.I. Roma, si discute sulla possibilità che l’infermiere sia riconosciuto, dalla legge, come pubblico ufficiale.


Quanto riportato nell’articolo non è esatto: “Il nuovo presidente della Regione Lazio si è riservato la delega alla Sanità, annunciando di volerci “mettere la faccia”. Si tratta di un segnale di attenzione e di assunzione di responsabilità che non va sottovalutato. Con lui, nell’incontro avuto a gennaio all’Ordine, si è parlato dei molti - a volte drammatici - problemi del Servizio Sanitario Regionale dal nostro punto di vista: dall’eterna carenza di organico (che ammonta ormai a cifre da far paura) alla scarsa attrattività della professione, al sostegno ai Corsi di Laurea e, ancora, di una più razionale e seria formazione degli operatori socio-assistenziali. Ma anche di aggressioni: abbiamo chiesto che gli infermieri possano essere assimilati a pubblici ufficiali, certo non per lo status, ma solo per la certezza della pena per gli aggressori. Questo, anche se l’elenco dei problemi occuperebbe tutto lo spazio che abbiamo sulla rivista. E forse neanche basterebbe”.

Quanto qui asserito non è corretto per le ragioni che seguono.


L'infermiere è già ritenuto pubblico ufficiale quando: “Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi” – art. 357 C.P..

Quando un infermiere referta (art. 365 C.P.C. ovvero quando “Chiunque, avendo nell’esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d’ufficio, omette o ritarda di riferirne all’Autorità indicata nell’articolo 361, è punito con la multa fino a cinquecentosedici euro”) è pubblico ufficiale perché certifica un fatto avvenuto la cui comunicazione in Procura è norma di diritto pubblico (il codice penale e di procedura penale sono norme di diritto pubblico) e perché manifesta la volontà della pubblica amministrazione (V. per esempio, l’art. 3 del D.P.R. 16 aprile 2003 n. 62).


Quando un infermiere redige la documentazione sanitaria in ambulanza o la consegna in reparto così come la cartella infermieristica, tutti documenti assimilati agli atti pubblici, lo fa nel ruolo di pubblico ufficiale, così come dispone l’art. 2700 C.C.: “L'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”.

Infatti, per giurisprudenza consolidata, sia civile che penale (ex plurimis, Cass. VI Civ., 26 novembre 2020 n. 26907; Cass. IV Pen., 29 luglio 2015 n. 33329) la cartella sanitaria costituisce atto pubblico per quanto dichiarato, se avvenuto dinanzi i sanitari sottoscrittori o da loro svolto (atto fidefacente superabile solo per querela di falso).


L’infermiere è incaricato di pubblico servizio, esattamente come il medico, se non svolge attività fidefacenti.

Per esempio, il medico che redige un certificato prognostico o diagnostico, non lo fa come pubblico ufficiale, ma come incaricato di pubblico servizio perché le dichiarazioni di scienza non possono essere coperte da fede pubblica (Cass. 1° agosto 2017 n. 19089) ma solo quelle che lui stesso compie o che vede fare.

Non è la qualifica a rendere un soggetto pubblico ufficiale, ma quello che fa.

Anche un poliziotto non è pubblico ufficiale quando, redigendo un verbale, esprime opinione proprie o ipotesi di come sia avvenuto realmente un fatto (Cass. 1° aprile 2019 n. 9037), mentre è pubblico ufficiale se riporta quanto ha sentito personalmente dire o fare o quanto ha fatto.


L’altro errore (anzi due) riguarda la connessione tra la qualifica di pubblico ufficiale e la certezza della pena.

Prima di tutto la certezza della pena non ha nulla a che vedere con il titolo di pubblico ufficiale, ma con le leggi speciali in materia di esecuzione della pena.

Non è che un reato viene perseguito con certezza solo se la vittima è un pubblico ufficiale; il reato consegue la reclusione se la pena inflitta lo prevede e supera i 4 anni e, in caso di aggressione, non avviene quasi mai, soprattutto se l’aggressore è incensurato o non ha cumuli di pena perché fino a 4 anni di condanna, nessuno va in galera (Corte Cost., 2 marzo 2018 n. 41).


Per ultimo, la tutela penale dalle aggressioni ai sanitari, non riguarda affatto il titolo di pubblico ufficiale, ma la legge 14 agosto 2020 n. 113, recante “Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell'esercizio delle loro funzioni”.

Il provvedimento presenta diversi profili di interesse per il penalista, avendo inasprito il quadro sanzionatorio per le aggressioni ai danni del personale sanitario, introducendo l’art. 583-quater, co. 2, C.P. che così stabilisce: “Nell’ipotesi di lesioni cagionate al personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria nell’esercizio o a causa delle funzioni o del servizio, nonché a chiunque svolga attività ausiliarie di cura, assistenza sanitaria o soccorso, funzionali allo svolgimento di dette professioni, nell’esercizio o a causa di tali attività, si applica la reclusione da 2 a 5 anni. In caso di lesioni personali gravi o gravissime si applicano le pene di cui al comma primo” (ovvero da 8 a 16 anni).

Il primo comma punisce le aggressioni ai pubblici ufficiali, in genere, ma è il co. 2, essendo speciale rispetto al co. 1, che si applica esclusivamente a tutti i sanitari, quindi anche ai pubblici ufficiali sanitari, che non potrebbero mai rientrare nella previsione del co. 1.


Quindi, un direttore sanitario, nonostante svolga perlopiù attività di pubblico ufficiale, se aggredito, non sarà protetto dal co. 1, ma dal co. 2, in quanto l’aggressione avviene per la finalità funzionale sanitaria che svolge e non per il titolo in sé.

Se un infermiere viene aggredito per quanto ha fatto o detto nell’esercizio delle sue funzioni (es. non favorisce l’ingresso nel box del P.S. sotto pressione o minaccia), l’eventuale aggressione sarà imputata alla sua attività lavorativa e, perciò, sarà applicato il co. 2 dell’art. 583-quater C.P..

Ma se viene aggredito perché non ha dato una sigaretta a chi gliel’ha chiesta, l’aggressione soggiace al comune art. 582 C.P. (lesione personale) e non alla norma speciale.

Ma c’è anche un aspetto negativo da considerare se il titolo di pubblico ufficiale viene assunto dall’infermiere in maniera stabile; il fatto che i reati commessi dal pubblico ufficiale sono aumentati di un terzo rispetto agli stessi reati commessi, però, da un incaricato di pubblico servizio.

Quindi, si ritiene che non sia assolutamente indispensabile insistere sul titolo di pubblico ufficiale, anzi, potrebbe non essere vantaggioso; si dovrebbe invece insistere nella tutela della dignità dell’infermiere che ancora oggi è mortificata sia sul piano vergognosamente retributivo, nonostante la presenza di sindacati infermieristici in contrattazione (gli aumenti retributivi consistenti hanno interessato esclusivamente le ex posizioni organizzative), sia sul piano mansionale, considerato che si subiscono sfruttamenti e offese quotidiane che non possono più essere tollerate.


Mauro Di Fresco

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