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Il dipendente a tempo determinato nel pubblico impiego non ha diritto alla conversione del contratto

Ennesima pronuncia della Suprema Corte a sez. unite (Cass. SS.UU., n. 5072/2016) in fatto di trasformazione del contratto di lavoro a tempo determinato in indeterminato nel pubblico impiego.

La Corte ha infatti ritenuto legittimo il ricorso in cassazione proposto dall’azienda ospedaliera di Genova in opposizione alla pronuncia della corte di appello del medesimo capoluogo che aveva rigettato il precedente ricorso dell’azienda ospedaliera condannandola al risarcimento del danno nei confronti dei due ricorrenti, nella misura di 15 mensilità della retribuzione globale di fatto, nonché al risarcimento del danno non inferiore alle 5 mensilità, oltre all’indennità sostitutiva del preavviso e alla reintegrazione nel posto di lavoro con conseguente diritto alla instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Osserva la Corte, che per quanto riguarda la determinazione del risarcimento del danno subito dal pubblico dipendente ancorché a tempo determinato, nel caso di reiterarsi dei contratti a termine, la norma da utilizzare è l’art. 32 comma 5 della legge n. 183/2010 (collegato lavoro) che sanziona l’illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato e non l’art. 18 della legge 300/70 c.d. “statuto dei lavoratori” o ex art. 8, Legge 604/66 o ancora ex art. 1 legge 92/2012, poiché queste interessano il licenziamento illegittimo e non la reiterazione dei contratti a tempo determinato, perché la cessazione del contratto per scadenza dei termini non è equiparabile al licenziamento.

Infatti, tali norme, partono dal presupposto di una perdita del posto di lavoro, che nel caso di contratti a termine nel settore pubblico non può verificarsi, stante il fatto che l’art. 97 della Costituzione impone che per essere impiegati all’interno della pubblica amministrazione bisogna necessariamente passare attraverso un pubblico concorso, concorso che non sussiste per gli impieghi a tempo determinato.

La Corte di Giustizia Europea con l’ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13 ha ribadito che la clausola 5 dell’accordo quadro, non stabilisce un obbligo generale per gli stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato, come anche la direttiva del 1999, che non contempla alcuna ipotesi di trasformazione del contratto da tempo determinato a indeterminato,” lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia”.

La direttiva comunitaria pone solo principi specifici, che per gli ordinamenti degli Stati membri, valgono come obiettivi da raggiungere ed attuare come il principio del contrasto dell’abuso del datore di lavoro nel privato o pubblico, nella successione di contratti a tempo determinato (clausola 5).

La portata della direttiva e dell’accordo, soprattutto riguardo alla clausola 5, è proprio questo, precisa la Corte di Giustizia -7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04 – (cit.) che ”l’obiettivo di quest’ultimo è quello creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”.

Sta poi alla legislazione nazionale individuare le norme idonee a sanzionare gli abusi di reiterazione dei contratti e non alla norma Europea che nulla osta a che uno Stato membro riservi un destino diverso al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione a seconda che siano stati contratti con datore di lavoro pubblico o privato.

Non ci può quindi essere risarcimento del danno per la perdita di lavoro a tempo indeterminato perché tale prospettiva non c’è mai stata: in nessun caso il rapporto di lavoro a termine si potrebbe convertire in rapporto a tempo indeterminato perché l’accesso al pubblico impiego può avvenire solo per concorso pubblico.

Ecco perché il risarcimento è in base alla violazione di disposizioni imperative e non già come perdita del posto di lavoro, se l’amminstrazione non avesse fatto ricorso a reiterati contratti a termine non per questo il lavoratore sarebbe stato assunto a tempo indeterminato senza concorso pubblico.

Non c’è quindi un danno da mancata conversione del rapporto di lavoro e quindi della perdita del posto di lavoro, ma solo quello da illegittimità di apposizione al termine al contratto di lavoro, o più in generale, di abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale in ipotesi di proroga, reiterazione o rinnovo ripetuti nel tempo.

Semmai si può ipotizzare una perdita di chance, nel senso che se l’amministrazione avesse operato legittimamente bandendo un concorso pubblico, il lavoratore che si duole per l’abuso di contratti a termine, avrebbe potuto parteciparvi e risultarne vincitore.

Le energie lavorative del dipendente si sarebbero liberate verso altri impieghi possibili o verso un impiego alternativo a tempo indeterminato, così facendo invece, il lavoratore che subisce l’illegittima apposizione al termine o più in generale l’abuso della successione dei contratti a termine rimane confinato in una situazione di precarizzazione e perde la chance di conseguire un percorso alternativo.

Il danno quindi del lavoratore pubblico dipendente non è determinato in base alla perdita del posto di lavoro, ma nella perdita di chance della ricerca di una occupazione alternativa migliore.

La tutela posta per la fattispecie in esame, dunque, è quella data dall’art. 32, comma 5, Legge n. 183/2010, che prevede per le ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato, che “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno stabilendo una indennità omnicomprensiva nella misura minima compresa tra 2,5 e massima di 12 mensilità della retribuzione globale di fatto”.

Il richiamo alla disciplina del licenziamento illegittimo, sia quella dell’art. 8 della Legge n. 604/66 che dell’art. 18 della Legge n. 300/70 , che altresì quella del contratto di lavoro a tutele crescenti (art. 3, D.Lgs. n. 23/2015) è incongruo perché per il dipendente pubblico a termine non c’è la perdita del posto di lavoro, ed ecco che invece si inserisce la disciplina dell’art. 32, comma 5, Legge n. 183/2010 che riguarda il risarcimento del danno in caso di illegittima apposizione del termine.

Per il dipendete pubblico, l’indennizzo ex art. 32, comma 5, è visto in chiave agevolativa e di maggior tutela rispetto al dipendete privato, nel senso che, risulta assolto l’onere della prova del danno che grava sul lavoratore, il lavoratore pubblico ha diritto a tutto il risarcimento del danno ed è sollevato dall’onere probatorio della dimostrazione del danno stesso, non gli è precluso per altro di provare che le chances di lavoro che ha perso perché legato da reiterati contratti a termine, si traducano anche in un danno patrimoniale più elevato.

La Corte quindi rinvia alla corte di appello di Genova l’impugnata pronuncia che dovrà adeguarsi al principio di diritto: “Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n. 183, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604”.

Il direttivo nazionale AADI

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