La Repubblica italiana ha dovuto prevenire gli abusi imprenditoriali, spesso catalizzati dalla libertà economica che si pone in antitesi con gli interessi dei lavoratori, in una contrapposizione che è inutile qui ricordare.
Per questo motivo, la costituzione ha stabilito all’art. 41 che “L’iniziativa economica privata è libera”, ponendo subito dopo un limite: “Non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Migliaia di libri sono stati scritti per spiegare queste poche righe il cui scopo è di facile intuizione ovvero l’imprenditore è libero di organizzare al meglio la propria impresa ma ha dei limiti, non deve ledere la dignità umana dei lavoratori che costituiscono la controparte nel sistema produttivo (Corte Cost., n. 113/2004).
Le manifestazioni e gli scioperi che si sono susseguiti nel corso del tempo, hanno determinato una maggiore coscienza popolare e messo in luce il bisogno di sicurezza e protezione della dignità contro lo sfruttamento di massa, finalizzato alla massima razionalizzazione degli investimenti.
Non a caso la costituzione ha voluto limitare il potere del datore, tutto sbilanciato a suo favore, nella ricerca dell’utile a tutti i costi.
L’art. 2085, 2° co. C.C. recita: “La legge stabilisce altresì i casi e i modi nei quali si esercita la vigilanza dello Stato sulla gestione delle imprese”, per poi ricordare al successivo articolo 2086 che “L’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”.
E’ il capo ma non può esercitare il proprio potere di gestione in maniera indiscussa!
L’arbitrarietà è quindi vietata perché lo Stato interviene, attraverso la legiferazione, a dettare le regole che bilanciano i rispettivi e spesso contrapposti interessi.
Ed infatti, all’art. 2 Cost. è stabilito che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
La giurisprudenza ha confermato in più arresti, che tra le formazioni sociali riconosciute dalla Repubblica rientra senz’altro l’ambiente di lavoro (Corte Cost., n. 359/2003).
Si ribadisce all’art. 3 che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Ponendo queste solide basi per una convergenza di interessi ultra partes, il legislatore si è trovato nella necessità di dover fissare dei paletti inderogabili a tutela dei lavoratori che potessero tenerli indenni da ogni abuso imprenditoriale.
E’ sotto questa spinta che nasce lo Statuto dei Lavoratori ma, soprattutto, ab initio, l’art. 2103 C.C. che trova la sua ratio nello ius variandi cioè nel diritto del datore di lavoro di variare (mutare) l’accordo sottoscritto con il lavoratore sul contenuto della prestazione, per motivi oggettivi cioè di impresa, e in presenza di talune specifiche situazioni.
L’art. 2103 stabiliva: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto (att. 96) o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo”.
Rimanendo confinati al primo comma, cioè al divieto di mutare le mansioni del lavoratore se non in caso di necessità nella unica direzione di adeguarle a quelle equivalenti alle ultime svolte, il legislatore aveva previsto un solo caso di ius variandi, quello di poter sopperire alle necessità organiche aziendali esclusivamente per pari livello retributivo.
L’equivalenza qui richiamata attiene a quella denominata sostanziale cioè alla valutazione operata dal giudice, in caso di contestazione dell’assegnazione datoriale, delle effettive mansioni svolte dal dipendente prima della nuova mutazione affinché si armonizzino con quelle mutate, sul piano della consistenza, natura e funzione, senza che le ultime risultino degradate rispetto alle prime; diversamente, ciò comporterebbe la violazione del diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione professionale che assume carattere di dignità quesita, costituendo inadempimento contrattuale (art. 1228 C.C.) e la conseguente obbligazione risarcitoria del danno da dequalificazione professionale. Tale danno (detto anche danno professionale) può assumere aspetti diversi in quanto può consistere sia nel danno patrimoniale, derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno, sia in una lesione del diritto del lavoratore all’integrità psico-fisica (art. 2087 C.C.) o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione. In particolare, la negazione o l’impedimento allo svolgimento delle proprie mansioni, al pari del demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa.
Così traduce la giurisprudenza la lesione del principio dello ius variandi (Si V. per tutte Cass., Lav., 22 febbraio 2003 n. 2763 come la 11 gennaio 2017 n. 1178).
Recentemente il Governo Renzi ha voluto porgere una mano agli imprenditori, insoddisfatti dei limiti imposti dalla norma che non consentiva loro di poter gestire al meglio la propria impresa e, con il D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, ha ridisegnato l’art. 2103 disponendo quanto segue: “Prestazione del lavoro (non più Mansioni). – Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale. Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni. Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi. Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. Nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi. Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo. L’articolo 6 della legge 13 maggio 1985, n. 190, è abrogato”.
Analizziamo le regole peculiari del nuovo art. 2013:
Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
Viene confermato il divieto di demansionamento perché il lavoratore deve svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ma, come nella precedente costruzione, sono ammesse le mansioni superiori acquisite e l’equivalenza sostanziale si opera non comparando le ultime mansioni svolte ma la categoria legale di appartenenza.
L’art. 2095 C.C. individua le 4 categorie legali dei prestatori di lavoro: dirigenti, quadri, impiegati e operai. La nuova comparazione rende l’assegnazione mutata più elastica; per esempio, un infermiere poteva essere assegnato ad attività amministrative ma contenute sempre nell’ambito assistenziale (sportello ambulatoriale).
Ora un infermiere (inquadrato nella categoria di impiegato), può perdere la propria vocazione assistenziale ed essere assegnato a mansioni squisitamente amministrative (U.R.P.).
Conoscendo la giurisprudenza oramai radicata sulla questione mansionale, ciò comporterà una valutazione della portata legislativa della norma perché una seppur minima considerazione dell’animus prestatoris andrà pure garantita per evitare che il lavoratore disperda completamente il proprio bagaglio professionale e si minimizzino le competenze acquisite. L’evoluzione giurisprudenziale è ancora in formazione.
In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale.
La norma qui in esame introduce il patto di demansionamento già previsto dalla giurisprudenza in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, attraverso l’istituto del repechage. Infatti il repechage permette, anzi obbliga, il datore, in caso di crisi economica, diminuzione marcata degli utili, soppressione di rami aziendali, riorganizzazione strutturale e organica, a ricercare all’interno dell’impresa una nuova collocazione del lavoratore, identica alla precedente, ovvero, se ciò non sia possibile, una collocazione simile o, in extrema ratio, una collocazione inferiore al fine di garantire al lavoratore un reddito evitandogli il licenziamento.
Difatti è da tempo immemorabile che la giurisprudenza accoglie il patto da demansionamento come necessità di mantenere il posto di lavoro (Cass., Lav., nn. 9369/1993; 9768/1998; 13134/2000; 12101 dell’11 luglio 2016) quando “… per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema maturata in tema di licenziamento per motivo oggettivo, il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo la soppressione del reparto o della posizione lavorativa cui era adibito il dipendente licenziato, non bastando un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma anche l’impossibilità di una sua utile ricollocazione in mansioni equivalenti a quelle ultime espletate (in questo spatium è possibile applicare la norma per la modifica degli assetti organizzativi). In altre parole deve provare l’impossibilità del repechage giustificandosi il recesso come extrema ratio (Cass., Lav., n. 11720/2009 e numerose altre conformi). Il datore di lavoro deve dimostrare la concreta riferibilità del licenziamento individuale a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo o tecnico organizzativo e l’impossibilità di utilizzarlo in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui era precedentemente adibito. Secondo costante giurisprudenza, per validare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non basta che esso sia l’effetto della sospensione del reparto del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, ma è necessario che l’azienda sia impossibilitata a ricollocarlo in altra attività utile”.
Ciò dimostra che questa parte del nuovo 2103 conferma quanto già in uso nella giurisprudenza in materia.
Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.
Anche in questo caso non viene apportata alcuna novità perché è naturale che la nuova assegnazione, anche sotto il precedente 2103, comportava, per questioni logistiche e produttive, l’addestramento del lavoratore affinché fosse pienamente utilizzato per rendere al massimo le proprie prestazioni. Ciò non significa che sia obbligatorio addestrare il lavoratore, tuttavia poiché eventuali inefficienze tecniche potrebbero ripercuotersi sulla produttività del lavoratore e sulla produzione aziendale, è interesse del datore istruire al meglio i propri dipendenti.
Ricordiamo, però, che gli infortuni prodotti dalla carenza formativa e informativa sono riconducibili a delitti contro la persona punibili sia come omicidio che come lesioni colpose (Cass., Pen., 02 febbraio 2016 n. 4325).
Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi.
La norma appare lapidaria ma deve essere inquadrata nel c.d. patto di demansionamento cioè situazioni oggettive e non arbitrarie, altrimenti cozzerebbero contro il primo comma, specificamente previste dall’accordo sindacale per permettere, in caso di crisi aziendale, una maggiore trasparenza e legalità delle procedure di ricognizione ed assegnazione oltre che per fissare criteri retributivi certi che non diano sfogo a contenziosi devastanti.
Risulterebbe antigiuridico disporre il demansionamento per semplici esigenze soggettive o meramente oggettive, escludendo qualsiasi garanzia contro abusi e soprusi (si ricordi che il licenziamento ritorsivo è sempre nullo anche se fondato sul demansionamento oggettivo).
Inutile ricordare che il patto di demansionamento deve essere accettato dal lavoratore che, diversamente, potrà optare per il recesso.
Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.
Nel caso in cui le esigenze aziendali (mutamenti organizzativi) o le situazioni di crisi previste dalla contrattazione inducano ad operare il patto di demansionamento, deve essere formata la prova scritta a garanzia anche futura dei diritti degli interessati, soprattutto per il diritto di prelazione, e siccome il demansionamento non può essere punitivo cioè posto a detrimento dei lavoratori, ma necessitato, si deve conservare il godimento retributivo non accessorio in corso.
Nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.
La mutazione mansionale, funzionale e retributiva qui enunciata non riguarda esclusivamente il demansionamento, ma anche situazioni di equivalenza o addirittura superiori.
Difatti la norma chiarisce che la modifica delle mansioni può avvenire nelle sedi previste a garanzia del lavoratore, che ivi può essere meglio supportato, ovvero presso la Commissione di conciliazione o il Collegio arbitrale istituite presso le direzioni territoriali (provinciali) del Ministero del lavoro (artt. 411 e 412 C.P.C.), per conservargli il posto di lavoro (demansionamento) oppure per acquisire a favore del lavoratore una diversa qualifica (senza demansionamento) o, infine, per migliorare la sua condizione di vita (una migliore turnazione, una diversa modalità di svolgimento del lavoro, una diversa ubicazione, ecc.).
Queste due ultime previsioni sono sovrapponibili, muta solo la ratio.
L’articolo 6 della legge 13 maggio 1985, n. 190, è abrogato cioè, in poche parole, anche nel privato non si guadagna più il trattamento retributivo della mansione superiore de facto dopo tre mesi di svolgimento, essendo oramai consolidata la giurisprudenza sull’esegesi dell’art. 36 Cost. che impone l’immediata retribuzione delle mansioni superiori svolte con continuità, prevalenza ed autonomia nel periodo fissato dal CCNL ovvero dopo 6 mesi.
Tutto quanto appena spiegato sul nuovo art. 2103 non si applica al pubblico impiego, nonostante inutili resistenze offerte da chi voleva sfruttare questa agevolazione imprenditoriale anche nella pubblica amministrazione, magari per sopperire le carenze organiche ormai gravemente radicate nel sistema.
Interessanti sul punto sono state due sentenze della Cassazione Lavoro, la n. 217 del 09 gennaio 2017 e la n. 2011 del 26 gennaio 2017, pronunciate sulla scorta delle SS.UU. n. 8740/2008 che ha postulato la tutela del bagaglio professionale.
In materia di pubblico impiego privatizzato, l’art. 52, co. 1 del D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165, sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto ovvero a quelle equivalenti ma sul piano formale cioè ancorato alla declaratoria prevista dalla contrattazione collettiva di settore, in quanto le perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore di lavoro è tuttora condizionato dal pubblico interesse e dalla compatibilità finanziaria delle risorse.
Tale situazione impone al giudicante di parametrare le mansioni svolte dal dipendente alla stregua delle previsioni contrattuali cioè al contenuto mansionale previsto dalla qualifica di appartenenza (Cass., Lav., 21 maggio 2009 n. 11835).
Ciò comporta che in caso di svuotamento delle mansioni tipicamente attribuite dal contratto al dipendente, tale parametrazione neppure è possibile, impedendone ogni equivalenza, in quanto viola apertamente l’obbligo di assegnare il dipendente alle mansioni previste dalla contrattazione.
Pertanto l’equivalenza formale si dipana sulla scorta previsionale del contratto e non è possibile raffrontare le diverse qualifiche tentando di rilevare comunanze (Cass. Lav., 11 marzo 2011 n. 5881).
In conclusione, l’infermiere nel pubblico impiego può fare solo l’infermiere, nel privato può fare qualsiasi altro lavoro se ciò serve a garantirgli il posto di lavoro per evitare il licenziamento oggettivo, ma certamente non è possibile demansionarlo conservandogli la qualifica di infermiere.
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