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Obbligatorietà dell’azione disciplinare

Commento a Cassazione sez. Civile 4 aprile 2017, n. 08722

Il principio della obbligatorietà dell’azione disciplinare esclude che l’inerzia del datore di lavoro possa far sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta, ove la stessa, contrasti con i precetti imposti dalla legge.

Il caso è molto interessante, riguarda il licenziamento di un direttore amm.vo di una ASL che, pur se dipendente pubblico e con il vincolo di esclusività verso l’azienda, aveva intrattenuto rapporti di lavoro con altre società senza averne avuto l’autorizzazione espressa.

Il dirigente amm.vo ricorrendo contro il licenziamento, si era visto ammesso il ricorso con reintegra nel posto di lavoro ed il conseguente risarcimento del danno subito.

La ASL datrice di lavoro dal canto suo, propone ricorso per Cassazione che finisce però per stravolgere le risultanze dell’appello, vediamo nello specifico i fatti di causa.

La corte territoriale, ha premesso che i fatti oggetto di causa risultavano acclarati e comunque documentalmente provati e in particolare:

a) in data 10 febbraio 2011 la ASL ha chiesto al dirigente amm.vo di chiarire quale fosse la sua posizione rispetto alla società X s.n.c.;

b) il dirigente aveva riscontrato la richiesta con missiva del 23 e 25 febbraio 2011, con le quali aveva comunicato di non svolgere nessuna attività di carattere commerciale, in quanto l’azienda di ristorazione era stata data in gestione a terzi;

c) la ASL acquisito il parere legale, con nota del 20 aprile 2011 aveva diffidato il dipendente a rimuovere la situazione di incompatibilità entro e non oltre 60 gg. Precisando che l’incompatibilità era riferita non solo alla società X s.n.c. ma anche alla società Y s.n.c., nonchè alla carica di liquidatore di un’altra società cooperativa;

d) il dirigente aveva replicato negando l’esistenza di incompatibilità e dichiarandosi comunque disponibile a rinunciare alla rappresentanza legale delle succitate società;

e) la ASL a seguito della comunicazione del dirigente, non aveva fatto seguire alcun atto se non il 5 novembre 2013 a seguito delle informazioni fornite dalla Guardia di Finanza, aveva chiesto nuovamente al dirigente notizie sulla rimozione della causa di incompatibilità;

f) il dirigente amm.vo aveva quindi reso noto che la società Y era stata liquidata nel 2013 e che la società X era in fase di scioglimento avendo ceduto le attività nel maggio del 2012;

g) gli atti acquisiti, venivano a questo punto trasmessi all’UPD (ufficio provvedimenti disciplinari) il quale, il 17 dicembre 2013 contestava l’illecito amm.vo e successivamente, con nota del 21 febbraio 2014 intimava il licenziamento per giusta causa, richiamando l’art. 1, comma 61, della legge 662/1996 evidenziando che la condotta era stata tale da aver leso il vincolo fiduciario con l’azienda datrice di lavoro.

La corte territoriale ha escluso la decadenza dell’azione disciplinare per tardività della stessa, ritenuta invece corretta dal tribunale di prime cure, perché la mancata rimozione della causa di incompatibilità integra un illecito permanente, con la conseguenza che, ai fini dell’individuazione del dies a quo, rileva non tanto il termine della diffida inviata ma la cessazione della condotta dell’incolpato.

La corte territoriale ha inoltre evidenziato che non sussistevano i presupposti necessari per l’irrogazione della sanzione espulsiva in quanto la stessa azienda, rimanendo inerte sino alla data del 5 dicembre 2013, aveva evidentemente escluso che sussistesse in concreto l’incompatibilità (senza per altro aver assunto una decisione definitiva) e omettendo di rispondere alla missiva del 29 gennaio 2012, aveva ingenerato nel dipendente la convinzione incolpevole che la ASL datrice di lavoro avesse recepito le sue giustificazioni.

Oltre a ritenere che la condotta del dirigente seguente alla contestazione, ossia il fatto di aver continuato a mantenere le cariche presso le società succitate, non giustificava l’asserita lesione del vincolo fiduciario, integrando invece l’ipotesi prevista dall’art. 8, comma 4, lett. a) del CCNL 06.05.2010, che prevede per l’inosservanza della normativa contrattuale e di legge, una sanzione di tipo conservativo.

Ha evidenziato poi che, non costituisce un parametro per valutare la gravità della condotta il fatto che il legislatore abbia previsto la decadenza in caso di mancata rimozione dell’incompatibilità e ha evidenziato che nella fattispecie, la decadenza non si era verificata perché alla prima diffida la ASL non aveva dato seguito, mentre alla seconda, il dirigente aveva ottemperato rinunciando agli incarichi.

Per quello che riguarda il provvedimento di espulsione, l’azienda reclamante non poteva invocare l’art. 1 della legge n. 662/96 perché il licenziamento è stato previsto dal legislatore solo in relazione allo svolgimento di attività di lavoro subordinato o autonomo, mentre il caso de qua il dirigente non aveva mai svolto direttamente l’attività commerciale.

Infine, la corte territoriale ha ritenuto applicabile l’art. 18 della legge n. 300/70, come modificato dalla legge n. 662/96 e ha ricondotto la fattispecie all’ipotesi prevista dal quarto comma, con conseguente diritto del dipendente alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento danni nella misura massima di 12 mensilità.

La corte territoriale ha quindi ritenuto corrette le statuizioni della sentenza di primo grado che, sebbene in applicazione della normativa vigente, aveva condannato la azienda a reintegrare il dirigente nel posto di lavoro con la corresponsione delle retribuzioni maturate.

La ASL ricorre in cassazione, di seguito i tre motivi su cui si basa il ricorso.

Con il primo motivo la ASL premette che il mancato esercizio del potere disciplinare per un certo periodo di tempo, non può essere equiparato a una valutazione di liceità della condotta e può solo determinare ove ne ricorrano i presupposti, la decadenza per tardività dall’azione disciplinare.

Pertanto la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere contraddittoriamente, che il procedimento fosse stato tempestivo ma che l’inerzia incidesse sulla sussistenza dell’illecito o, comunque, lo rendesse di gravità tale da non giustificare il licenziamento per giusta causa, pur a fronte della violazione dell’art. 60 de D.P.R. n. 3 del 1957, integrata anche solo dall’accettazione del dipendente di mere cariche sociali.

La pubblica amm.ne, secondo la ASL, ben può avviare la procedura disciplinare anziché adottare un provvedimento di tipo automatico, ma in tal caso non può essere esclusa la giusta causa di licenziamento perché la non perseguibilità del rapporto di lavoro discende dalla previsione di legge della causa di incompatibilità. Il dipendente deve rimuovere l’incompatibilità decorsi 15 gg. dalla diffida, sicché la Corte non poteva ritenere privo di effetti il ritardo dell’adempimento da parte del dirigente, atteso che, la norma che impone la decadenza non lascia spazio alcuno per le valutazioni discrezionali da parte del giudice.

Con il secondo motivo, la ricorrente ASL evidenzia che la corte territoriale nell’escludere la gravità dell’addebito per il solo fatto che non vi fosse stato svolgimento di attività lavorativa, avrebbe trascurato

elementi decisivi ai fini del giudizio di proporzionalità e in particolare non avrebbe valutato la entità del reddito percepito dal dirigente in relazione alle cariche ricoperte, che smentiva quanto sostenuto dal dirigente stesso in merito alla natura del ruolo svolto.

Con il terzo motivo, la ASL ritiene che la mancanza dell’elemento soggettivo non determina l’insussistenza del fatto contestato, presupposto indispensabile per l’applicazione della tutela prevista del quarto comma (art. 18 Legge n. 300/70). Inoltre la violazione del CCNL rileva solo qualora la contrattazione preveda sanzioni conservative per la specifica infrazione commessa in concreto dal lavoratore, non già nei casi in cui il contratto sia assolutamente generico.

La Suprema Corte analizzato i fatti deduce quanto segue:

ritiene i primi due motivi di ricorso fondati, spiegandone così le ragioni;

la corte territoriale ha errato nell’attribuire rilievo all’inerzia dell’amm.ne dopo la prima diffida, per escludere la rilevanza disciplinare della condotta tenuta dal dirigente nell’arco temporale compreso fra il 20 aprile 2011 e il 5 novembre 201;

il potere disciplinare del datore di lavoro pubblico, sebbene fondato dopo la contrattualizzazione del rapporto di lavoro sul contratto e, quindi, sottratto alla regola del procedimento amm.vo, conserva un carattere di specificità rispetto all’analogo potere del datore di lavoro privato, perché la qualità del soggetto che lo esercita incide sulle finalità alla cui realizzazione l’esercizio del potere deve essere indirizzato.

L’art. 2106 c.c. applicabile anche al pubblico impiego contrattualizzato in forza del richiamo dell’art. 55 del D.lgs. n. 165/01, consacra il potere del datore di lavoro di reagire unilateralmente alle condotte tenute dal prestatore in violazione degli obblighi contrattuali.

Detti obblighi, nell’impresa privata vengono imposti dal datore di lavoro nell’esercizio della libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’ art. 41 cost., nella pubblica amm.ne invece, le regole di condotta del lavoratore devono assicurare il rispetto dei principi di rilievo costituzionale, di buon andamento, di imparzialità e legalità dell’azione amm.va.. Il potere quindi, sebbene di natura privatistica, è condizionato dalla presenza di interessi che trascendono quelli del singolo datore di lavoro e ciò giustifica la specialità della disciplina e la non estensibilità di quei principi, tipici del procedimento disciplinare privato anche all’impiego pubblico.

Fra questi va annoverato quello della discrezionalità dell’esercizio del potere disciplinare, sicchè se il datore di lavoro privato è libero di valutare l’opportunità e la convenienza dell’iniziativa e anche di tollerare comportamenti che potrebbero essere ritenuti disciplinarmente rilevanti, non altrettanto può dirsi per il dipendente pubblico, il quale, deve ispirare la propria condotta alla tutela di interessi generali come sopra evidenziato e quindi in nessun caso è consentito che rimangano impunite condotte poste in essere

dall’impiegato in violazione delle regole di comportamento imposte dalla legge o dal contratto collettivo, nei limiti consentiti dall’art. 55 D.lgs. n. 165/01.

Non a caso l’art. 55 sexies della normativa in parola, inserito nel D.lgs. n. 150/09, ha previsto al comma 3, la responsabilità del dirigente per il ritardo o l’omissione dell’iniziativa disciplinare, evidentemente ritenuta doverosa dal legislatore.

Sono stati anche limitati sensibilmente i limiti del cosiddetto patteggiamento disciplinare, escluso per le condotte più gravi punite con la sanzione espulsiva e inoltre limitato al quantum della misura, essendo preclusa l’applicazione concordata di una pena di natura diversa da quella prevista dalla legge o dal CCNL.

Non vi è quindi dubbio che dall’entrata in vigore del decreto Brunetta (D.lgs. 150/09) l’azione disciplinare sia caratterizzata dall’obbligatorietà.

Nel pubblico impiego, l’inerzia nella repressione di comportamenti contrari ai doveri di ufficio può solo rilevare quale causa di decadenza dall’esercizio dell’azione, ove questa comporti il mancato rispetto dei termini perentori imposti dal legislatore, ma non può mai far sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta vietata.

L’affidamento incolpevole presuppone che il potere del datore di lavoro sia discrezionale in modo che l’inerzia nell’azione disciplinare possa essere interpretata dal lavoratore come rinunzia all’esercizio del potere medesimo e come valutazione di liceità della condotta.

Gli stessi doveri posti a carico del dipendente pubblico dalla legge, dal codice di comportamento, dalla contrattazione collettiva, tengono conto della particolare natura del rapporto che pone l’impiegato al servizio della nazione e quindi, lo impegna ad ispirare la propria condotta ai principi di rilievo costituzionale, di buon andamento, di imparzialità e legalità dell’azione amm.va. anche riassunti nell’art. 54 D.lgs. n. 165/01 con il richiamo ai doveri costituzionali di “diligenza, lealtà, imparzialità e alla cura dell’interesse pubblico”.

La consapevole violazione di detti doveri, connessi strettamente agli interessi di carattere generale, non può essere scriminata dalla colpevole inerzia del soggetto tenuto alla segnalazione dell’illecito, inerzia che lascia inalterata la rilevanza disciplinare della condotta.

La corte territoriale ha pertanto errato nell’affermare che il tempo trascorso fra due diffide era di entità tale da determinare il “legittimo affidamento sull’acquiescenza della stessa datrice di lavoro”.

Pertanto si ritiene il primo motivo di ricorso fondato, la corte territoriale non ha correttamente interpretato l’art. 53 del D.lgs. n. 165/01 che al primo comma richiama, salvo le deroghe espressamente previste da leggi speciali, “per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli att. 60 e seguenti del testo unico approvato con il D.P.R. n. 3 del 1957”, a sua volta il T.U. dopo aver indicato i casi di

incompatibilità, fra cui rientra l’accettazione di cariche in società costituite a fine di lucro (art. 60), all’art. 63, prevede che l’impiegato deve essere diffidato a cessare dalla situazione di incompatibilità; la mancata ottemperanza della diffida, decorsi quindici giorni dalla stessa, determina decadenza dal rapporto di impiego (art. 63, comma 3); la rimozione della situazione di incompatibilità “non preclude l’eventuale azione disciplinare”(art. 63, comma 2).

La corte si è più volte espressa in merito all’interpretazione degli artt. succitati, e ha evidenziato che la vigenza del T.U. (D.lgs. 165/01) per il pubblico impiego contrattualizzato, trova la sua ratio nella specialità del rapporto rispetto a quello privato, rapporto che per espressa volontà del legislatore costituzionale, deve essere tendenzialmente esclusivo. Il provvedimento con il quale la pubblica amm.ne prende atto della mancata rimozione della causa di incompatibilità, seppure espressione di un potere privato e non autoritativo, costituisce una forma di cessazione automatica del rapporto, che non deriva dalla sussistenza di responsabilità disciplinare del dipendente “scaturendo invece dalla perdita di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità che, se fossero mancati ab origine, avrebbero precluso la stessa costituzione del rapporto di lavoro”.

Il collegio nel dare continuità alle statuizioni già espresse, intende ribadire che, ove si profili una situazione di incompatibilità assoluta, vengono in rilievo due diversi aspetti:

* uno relativo alla cessazione automatica del rapporto, che per volontà del legislatore si verifica qualora l’incompatibilità non venga rimossa nel termine assegnato al dipendente;

* l’altro inerente alla responsabilità che può essere comunque ravvisata anche nell’ipotesi in cui l’impiegato abbia ottemperato alla diffida.

Mentre la prima conseguenza opera su un piano oggettivo e prescinde da valutazioni sulla gravità dell’inadempimento, la seconda è assoggettata ai principi propri della responsabilità disciplinare che, secondo giurisprudenza consolidata, presuppone sempre un giudizio di proporzionalità fra atto contestato e sanzione, da esprimere tenendo conto di tutti gli aspetti oggettivi e soggettivi della condotta.

Nel caso di specie è incontestato fra le parti che la ASL, attivato il procedimento previsto dal D.P.R. n. 3/57 e preso atto della mancata rimozione della causa di incompatibilità, anziché pronunciare la decadenza prevista dal richiamato D.P.R., ha iniziato il procedimento disciplinare, all’esito del quale ha intimato il licenziamento, ravvisando una giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro nell’inottemperanza alla diffida, e comunque, una responsabilità disciplinare nella violazione dell’obbligo di esclusività protrattasi nel tempo.

Poiché la volontà risolutoria del rapporto è stata manifestata con chiarezza e ricondotta all’esercizio del potere disciplinare, il giudizio doveva essere espresso tenendo conto dei profili oggettivi e soggettivi dell’illecito ma, quanto al primo aspetto, doveva essere considerata la disciplina normativa sopra richiamata e la rilevanza che

nel rapporto di pubblico impiego, il legislatore attribuisce al principio di esclusività. In altre parole, una volta ritenuta sussistente l’incompatibilità, il giudizio di gravità non poteva prescindere dalla considerazione della omessa ottemperanza alla diffida.

L’obbligatorietà dell’azione disciplinare, non consente al pubblico dipendente di invocare il principio di affidamento incolpevole nella liceità della condotta, ove la violazione si riferisca a precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento o dal contratto collettivo nazionale; la violazione del principio di esclusività determina il venir meno dei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità di preminente rilievo nel rapporto di pubblico impiego.

Pertanto il ricorso è accolto, si rinvia alla corte di Appello di Venezia in diversa composizione, la quale procederà ad un nuovo esame attenendosi ai principi di seguito enunciati;

a) l’art. 53, comma 1, del D.lgs. 165/01 nel rinviare alla disciplina dettata dagli artt. 60 e seguenti del D.P.R. n. 3 del 1957, prevede che, in caso di incompatibilità assoluta, la violazione dell’obbligo di esclusività può essere fonte di responsabilità disciplinare anche nelle ipotesi in cui l’incompatibilità venga rimossa a seguito della diffida;

b) la sanzione irrogata dal datore di lavoro all’esito del procedimento disciplinare, avviato dopo la diffida prevista dall’art. 63 del D.P.R. n. 3/57, deve essere proporzionata alla gravità della condotta, da valutarsi sul piano soggetdisctivo e oggettivo, in relazione alla quale assumono particolare rilievo la condotta tenuta dal dipendente dopo la diffida e la mancata rimozione dell’incompatibilità;

c) nell’impiego pubblico contrattualizzato, il principio di obbligatorietà dell’azione disciplinare esclude che l’inerzia del datore di lavoro possa far sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta, ove la stessa contrasti con i precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento e dal contratto collettivo di lavoro.

In fine per quel che riguarda la norma utilizzata ai fini del licenziamento, e dando continuità all’orientamento già espresso con sentenze analoghe, si ribadisce che le modifiche apportate dalla Legge n. 92 del 2012 c.d. “Fornero” all’art. 18 della legge n. 300/70, non si applicano al pubblico impiego privatizzato, sicché la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della soprarichiamata norma, resta quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300/70 nel testo antecedente alla riforma.

Dott. Carlo Pisaniello

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