Non ho voluto gettarmi nella mischia che taluni giuristi o presunti tali in questi giorni stanno affollando, tentando anch’io di spiegare e interpretare come meglio potrei, la legge 8 marzo 2017 n. 24 (c.d. legge Gelli).
Speculazioni che qualche sindacalista sta fomentando, come al solito per fare tessere, non mi appartengono neppure come presidente dell’Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico perché voglio attenermi al procedimento scientifico che ci impone di attendere quantomeno la vigenza della norma (cioè il 31 marzo) e il serio dibattito giuridico che nasce dall’audit forense e giudiziario.
Invece devo constatare, anche questa volta, che qualcuno ha addirittura scritto un libro sulla questione, elargendo summe di particolare saggezza che però non trovano attualmente alcun riscontro interpretativo, come se fare il giurista equivalga a fare il cartomante, il veggente per poi dire: “visto? Avevo ragione io”.
Non voglio partecipare alla corsa del “più intellettuale”, non è questo il rigore metodologico che un giurista deve seguire.
Ho deciso, invece, di ascoltare e meditare sulla questione perché la legge Gelli nasce in un contesto sociale frettoloso (ha subito una sola fase modificativa alla Camera), spinta dalla necessità di porre un freno alla medicina difensiva, incalzata dalle associazioni dei medici che hanno preteso una risposta alle eccessive (secondo questi) richieste di risarcimento e assenze di tutela della categoria medica.
Nella fretta non sono stati considerati importanti assiomi giuridici e fondamentali rilievi costituzionali che non tarderanno di essere affrontati con verosimili effetti abrogativi e novellativi: difatti la legge Gelli è costellata di norme in bianco cioè di regole non precettive che devono essere regolamentate dalla secundum legem.
Quindi ho scelto di ascoltare e l’ho fatto nell’unico posto opportuno, tra i magistrati della Corte Suprema.
Insieme a pochissimi fortunati, ho avuto il privilegio di accedere al Master in Processo Documentale Sanitario – Parte Speciale (l’anno scorso ho frequentato la Parte Generale) che ha esordito nelle prime lezioni dell’anno accademico a fine marzo proprio sull’esegesi della norma in questione.
Mi trovo, insieme ad altri 9 avvocati e 40 medici legali scelti tra i migliori in Italia, nella prestigiosa Aula Vittorio Occorsio, alla Corte di Assiste di Appello della Procura della Repubblica presso il Tribunale Penale di Roma dove si celebrano i processi antimafia in teleconferenza, ad ascoltare personaggi del calibro del Presidente della Procura Generale presso la Corte Suprema, del Primo Presidente della Corte, dei relatori della III Sez. Civile e IV Penale (le sezioni c.d. sanitarie), del Presidente Generale dei Medici Legali, degli Avvocati delle Camere Civili e Penali della Procura e del Massimario delle Sezioni Unite ed altri professori di fama internazionale che, succedutisi ininterrottamente in ambedue le giornate, hanno svolto avvincenti lezioni magistrali, stimolando interessanti dibattiti sulla nuova legge.
Questi esimi docenti si sono già incontrati il 22 marzo presso la Commissione di verifica istituita dal Ministero della Giustizia che dovrà valutare gli effetti della legge Gelli e consigliare opportune modifiche (la legge è denominata Gelli perché è il senatore che maggiormente ha tessuto i rapporti con le associazioni mediche, ma in verità il presentatore è il senatore Benedetto Francesco Fucci).
Ebbene tutti questi illustri studiosi, il top del top che questo Master da sempre garantisce e che decideranno come e cosa modificare della legge, hanno parlato a pochi metri da me, spiegandomi quali problematiche sono già state individuate e come saranno affrontate in futuro.
In primis la legge entrerà in vigore il 31 marzo 2017 e ciò significa che, disponendo per il futuro cioè per i fatti illeciti realizzatisi dopo tale data, le prime pronunce di primo grado, in considerazione dei periodi processuali in ambito risarcitorio civile sanitario, giungeranno intorno al 2020-2022, senza contare che non è detto che le prime pronunce riguarderanno anche aspetti squisitamente esegetici, che invece rientrano nelle peculiari attività della Corte Suprema, le cui sentenze si faranno attendere non prima del 2024-2027.
Problemi nascono anche in relazione alla responsabilità concausale che coinvolge, in realtà, più professionisti ma che la legge Gelli riconduce al dominus cioè, nella fattispecie, al medico.
Ipotizziamo che un paziente subisca danni irreversibili o addirittura la morte per eventi prevedibili e quindi evitabili perché l’infermiere non ha monitorato alcuni parametri che invece avrebbe dovuto segnalare al medico.
Ed allora cosa ha riformato la Gelli?
Non ha riformato le regole dottrinali che oramai costituiscono assiomi radicati nell’ordinamento giuridico; e pertanto i giudici continueranno ad applicare il diritto sanitario com’è attualmente condiviso, generando spunti di riflessione e dibattito su cui costruire altre regole modificative nel futuro.
La legge ha semplicemente gettato le basi perché attraverso altre leggi, si possano riscrivere gli articoli, così da creare un diritto evolutivo in una materia che è stata, almeno sul piano legislativo, molto carente.
La legge Gelli ha voluto cogliere gli aspetti più significativi del diritto sanitario internazionale così da realizzare il meglio nel nostro sistema giuridico.
Ne è un esempio il co. 1 dell’art. 16 che ritaglia il modello danese, stabilendo che la documentazione che riguarda le attività del Risk Manager non è utilizzabile nel processo.
Questo serve a non vincolare, cioè a non influenzare l’attività diretta alla prevenzione del sinistro clinico alle potenziali utilizzazioni processuali.
In poche parole, se l’ufficio prevenzione rischi deve elaborare procedure preventive sulla scorta di accertamenti e valutazioni che rilevano carenze strutturali e organiche aziendali, non sarà libero di registrare tali carenze, sapendo che quanto verrà registrato potrebbe essere utilizzato dal paziente in causa contro l’azienda.
Tale timore contrae le attività del Risk manager limitandone la portata e l’efficacia preventiva.
L’ufficio deve essere libero da timori, libero di registrare carenze e fatti anche gravi per poterli correggere e prevenire nel futuro, senza che il professionista possa subire pregiudizi interni ed esterni per quello che l’ufficio ha riscontrato.
Si pensi anche all’obbligo di pubblicare nel sito ufficiale della struttura sanitaria, tutte le erogazioni risarcitorie (stragiudiziali e giudiziali) effettuate negli ultimi 5 anni, di chiara genesi anglosassone.
Altro serio problema attiene la decadenza dell’azione di regresso (c.d. rivalsa) che va esperita entro un anno dal passaggio in giudicato (non si comprende se in ogni fattispecie oppure solo se il professionista non è stato parte in causa).
Una cosa è sicura: non risponde in regresso se l’azienda ha transatto perché in accordo conciliativo le parti non possono entrare nel merito della colpa e attribuire ad un terzo estraneo (il professionista assente, estraneo all’accordo), la natura del pregiudizio.
L’azione di regresso non è più esercitata dall’azienda ma dalla Procura Generale della Corte dei Conti e non oltre la misura della retribuzione massima lorda percepita nell’anno precedente, in corso o successivo al fatto di causa (non si comprende la confusione di questa regola cioè non si comprende se debba essere scelto il reddito minore fra i tre, per favorire il lavoratore) moltiplicata per il triplo.
Questa locuzione è mal costruita: significa che si deve moltiplicare il reddito per il triplo del reddito ma ciò comporterebbe una cifra astronomica cioè se ipotizziamo un reddito di 30mila euro l’anno e lo moltiplichiamo per il triplo cioè 30mila X 3 ovvero 90mila, il risultato sarebbe assurdo cioè due miliardi e 700 milioni di euro (una piccola manovra finanziaria che un infermiere pur versando tutto lo stipendio mensile, onorerebbe nel giro di 150mila anni).
Naturalmente tale esegesi risulterebbe sproporzionata alle reali possibilità economiche dei poveri infermieri, quindi, nonostante diversi avvocati insistano su questa teoria, i magistrati della Corte hanno tradotto la regola semplicemente come il triplo del reddito massimo prodotto dal professionista nell’anno precedente il fatto.
Comunque anche in questo caso si attendono soluzioni ministeriali.
La differenza è che prima, in caso di dolo o colpa grave, il lavoratore rispondeva in toto.
Vi è, quindi, un notevole smorzamento della responsabilità erariale rispetto a prima.
Inoltre per tre anni successivi alla condanna, l’infermiere non potrà ricevere incarichi superiori a quelli che già svolge e l’azione erariale giudiziaria potrà essere attivata non più dall’azienda ma dalla Procura Regionale della Corte dei Conti (in poche parole in pochi pagheranno, considerando che la Corte dei Conti sovente fa scadere i termini per incapienza processuale).
All’esito del processo civile, se l’azienda sarà condannata a risarcire il paziente per colpa grave, dovrà chiedere la ripetizione (nei limiti di legge) di quanto versato, al professionista responsabile e questo rappresenterà tre problemi:
1 – l’escussione del diretto responsabile del sinistro sarà impedita dalla violazione costituzionale del diritto di difesa perché il lavoratore non ha potuto essere parte del processo per via della surrogazione obbligatoria?
L’azienda avverte il proprio dipendente che potrà farsi assistere dall’avvocatura interna attraverso la costituzione della stessa azienda, senza che debba necessariamente nominare un proprio difensore.
Il dipendente, quindi, non sarà costretto a pagare un avvocato perché il datore di lavoro andrà in causa manlevandolo cioè difendendo ambedue gli interessi, suoi e propri.
Ma all’esito della causa quando si deve decidere il tipo di colpa da applicare alla fattispecie, gli interessi dirimono, perché in caso di colpa lieve dovrà pagare esclusivamente l’azienda, in caso di colpa grave anticiperà il risarcimento l’azienda che dovrà poi recuperare parte del quantum liquidato.
Ora il problema non nasce tanto su questo, perché il lavoratore può sempre farsi assistere da un avvocato a spese dell’azienda, quanto sull’escussione perché, nel momento in cui l’azienda pretenderà il rimborso del risarcimento, ci si chiede se il lavoratore potrà opporre all’azienda tutte le eccezioni processuali e di merito che avrebbe potuto opporre al paziente se avesse optato per la difesa in proprio anziché per la difesa surrogata.
Questo aspetto viene sottostimato dalla legge ma rappresenta un serio scoglio costituzionale.
Se sarà percorribile la prima ipotesi (ligia del vincolo costituzionale) anziché la seconda (ligia del principio di economia processuale e nomofilattico), potranno addirittura coesistere due sentenze contrarie; la prima di condanna dell’azienda che stabilisce la colpa grave del lavoratore, la seconda che stabilisce, invece, la totale estraneità del lavoratore ai fatti di causa con la naturale conseguenza di non dover rimborsare alcunché all’azienda.
2 – Il secondo problema attiene la decadenza dell’azione di regresso.
L’azione di regresso cioè di rivalsa, si prescrive in 5 anni dal momento in cui il diritto è divenuto esigibile cioè dal momento in cui, nel caso di specie, l’azienda ha ricevuto contezza del danno cagionato da tizio al paziente.
Il paziente, invece, ha diritto di agire per il risarcimento del danno da responsabilità professionale entro 10 anni dal momento in cui ha prova (sintomi, referti, ecc.) che il danno sofferto sia conseguenza diretta di una specifica colpa sanitaria.
Questi due diversi termini perentori non sono conciliabili sotto la legge Gelli perché all’esito della causa che potrebbe avvenire anche dopo 20 anni dal fatto illecito, il termine entro il quale l’azienda potrà escutere il lavoratore responsabile sarà più che spirato.
La giurisprudenza, in assenza di una specifica novellazione, dovrà interpretare la norma fissando un diverso dies a quo (inizio del periodo di regresso) che spostandosi in avanti, consentirà all’azienda il recupero erariale, sempre rispettando il principio di esigibilità, magari dal momento in cui la sentenza di condanna civile sia divenuta irrevocabile, coincidendo con l’effettiva esigibilità del diritto di credito che, così viene definitivamente accertato.
3 – La compagnia di assicurazione non garantisce in caso di dolo o colpa grave, quindi cosa deve recuperare l’erario dal lavoratore? Una parte di quanto versato, rimanendo a carico dell’azienda il resto. Ora è possibile assicurarsi anche contro questa evenienza? Dipende dalla compagnia ma se ciò avvenisse il lavoratore, a rigor di codice, dovrebbe essere tenuto a pagare esclusivamente l’eventuale franchigia contrattuale, sempre che venga prevista.
Insomma, le modifiche alla legge non si faranno attendere perché il dibattito è ancor più vivo.
La legge offre seri dubbi applicativi ed esegetici anche sulle linee guida e sui protocolli.
Chi decide l’accreditamento sulle linee guida? E su diverse e contrastanti linee guida, il professionista agisce secondo coscienza? L’inosservanza delle linee guida costituisce responsabilità? E’ da valutarsi prova o indizio?
I protocolli chi li accredita? Il CTU può favorire un protocollo a discapito di un altro? Il Ministero della salute deve accreditare le linee guida e i protocolli?
Certamente l’infermiere legale risulterebbe valorizzato nel futuro perché questi quesiti professionalizzeranno l’attività di consulenza, rimettendo ogni valutazione bibliografica all’ausiliario del giudice, anche perché in taluni casi la sua attività sarebbe fondamentale, se non fosse che la legge Gelli, come vedremo appresso, ha specificamente affossato il ruolo dell’infermiere.
Mi ha fatto piacere partecipare al dibattito e rappresentare la categoria infermieristica in una problematica che, nonostante il titolo della legge, pone esclusivamente al centro della discussione il medico, tanto che si parla di responsabilità professionale medica mentre la questione attiene alla responsabilità professionale sanitaria.
Non mancheranno altre considerazioni soprattutto alla luce della recente approvazione, avvenuta il 21 marzo c.a., del D.D.L. sulle tabelle del danno non patrimoniale ex art. 2059 C.C..
Insomma, ci attende un lungo periodo di sperimentazioni e correzioni di un diritto in continua evoluzione che non tarderà anche a coinvolgere tutte le parti in causa e, quindi, anche i pazienti che finora, non avendo ancora subito ripercussioni ovvero contrazioni significative dei propri diritti sul piano fattuale, appaiono indifferenti alla riforma.
Penso che la legge Gelli non abbia sortito alcun effetto sul diritto sanitario complessivo, visto che in definitiva pochissimo è stato modificato rispetto alle precedenti regole giurisprudenziali che, ripeto, secondo il mio parere verranno riconfermate fino a smussare quanto di innovativo ci possa essere in questa legge.
Neppure il provvedimento che esclude la responsabilità diretta del professionista anche sul piano processuale risulta una novità: la giurisprudenza ha sempre ritenuto surrogata la responsabilità per colpa lieve – S.C., III Civ. 01 marzo 1988 n. 2144 e 20 aprile 2016 n. 7768.
Particolarmente interessante l’esegesi offerta da Paolo Di Marzio, Magistrato Massimario della Corte Suprema, sulle singole norme della Gelli.
Vengono istituiti il Centro Regionale per il rischio sanitario, il Garante della Salute e l’Osservatorio per le Buone Pratiche ma, a invalidazione di quanto appena stabilito, senza maggiori oneri finanziari.
Inoltre, insieme all’obbligo per le aziende di assicurarsi contro le richieste di risarcimento professionale, queste norme non sono precettive cioè mancano del tutto dell’appendice sanzionatoria o coattiva, non disponendo verso le Regioni, destinatarie delle suddette norme, alcuna sanzione o surrogazione in caso di inerzia.
I romani distinguevano la norma perfetta dalla norma imperfetta (minus quam) proprio dalla presenza delle regole punitive, qui nel testo Gelli del tutto assenti.
Più che una legge, la n. 24/2017 sembra assomigliare ad una raccomandazione lasciata alla buona coscienza delle giunte e dei consigli regionali.
L’assurdo nasce dall’obbligo per le aziende sanitarie di assicurarsi, ma non vengono obbligate le compagnie di assicurazioni a fare altrettanto; in poche parole non si potrà obbligare la compagnia a stipulare il contratto assicurativo con le aziende, con ovvie conseguenze finanziarie, come per esempio la speculazione sulle tariffe che potrebbero anche essere imposte dalle stesse compagnie, stante l’obbligo che grava sulle aziende sanitarie di contrarre.
Infatti è stabilito il Fondo di Garanzia ma è lasciato, anche questo, a successiva regolamentazione.
Conoscendo l’esperienza italiana dei fondi di garanzia, ad esaurimento (vittime strada, infezioni trasfusionali, ecc.) già sappiamo che sarà una immane tragedia.
Poi si deve anche distinguere la polizza claims made da quella loss occurrence, la prima rara perché copre il sinistro se il danneggiante è assicurato nel momento in cui riceve la richiesta risarcitoria, prescindendo dal periodo di realizzazione; la seconda più frequente perché si riferisce alla data di stipulazione che deve coincidere con il sinistro.
Si pensa però che con la Gelli aumenteranno le claims made perché il professionista pagherà il premio per molti anni prima che il paziente (avendo tempo 10 anni) concretizzi una formale richiesta risarcitoria che, spesso, trova una soluzione accomodante al ribasso in sede conciliativa.
Anche in questo caso si attendono riflessioni e interventi correttivi.
Anche la costruzione semantica dell’art. 4 è stata superficiale: ad litteram, se l’azienda è obbligata a consegnare all’interessato tutta la documentazione sanitaria di sua pertinenza entro 7 giorni dalla richiesta, ciò significa che, nonostante la documentazione sia magari disponibile già il sesto giorno dopo la richiesta, ma il paziente si presenta per il ritiro, per esempio, il ventesimo giorno, l’azienda si troverà in colpa per aver consegnato la documentazione oltre il settimo giorno.
La giurisprudenza, si pensa, interverrà a mitigare la colpa secondo il già accreditato istituto della responsabilità incolpevole perché la norma dovrà essere interpretata nel senso di consegnare latatamente la documentazione cioè nel renderla disponibile già il settimo giorno ovvero spedirla anche per email entro il settimo giorno dalla richiesta e non consegnarla effettivamente nelle mani del paziente.
Diversamente la colpa aziendale cioè la violazione di legge, dipenderebbe dalla volontà del paziente che omettendo di ritirare la documentazione entro 7 giorni dalla richiesta, realizzerebbe un fatto illecito altrui, cioè la c.d. colpa oggettiva, già prevista dal nostro ordinamento ma solo per talune fattispecie dove il terzo soggiace completamente al controllo del responsabile (es. tutore) cosa non fattibile nel caso di specie ove la volontà di ritirare la copia fotostatica dei documenti sanitari sfugge al controllo della struttura.
Giungono critiche anche sull’art. 5 per il SNLG (Sistema Nazionale per la pubblicazione delle Linee Guida) gestito dall’Istituto di Sanità Pubblica che dovrà accreditare le raccomandazione che, secondo Gelli, vincolano il sanitario, confondendo la storica dicotomia con i protocolli.
Il richiamo all’art. 7, da alcuni giuristi acclamato come vero spirito riformatore, è invece un pleonasmo perché da oltre 10 anni la giurisprudenza in materia si è radicata sulla differenziazione tra il rapporto contrattuale di spedalità e il contatto sociale (rapporto aquiliano di cui all’art. 2043), qui confermata a tal punto che sembra leggere una delle tante sentenze in materia.
Infatti erravano gli avvocati del paziente che chiamavano in causa i medici o gli infermieri dipendenti per sentirli condannare solidalmente con la struttura quando, poi, nell’esecuzione della sentenza vittoriosa notificata al professionista, questi non pagava per via del principio di surrogazione.
La legge Gelli non muta l’orientamento classico perché conferma la natura contrattuale della spedalità con l’effetto ordinario della prescrizione decennale per l’azione risarcitoria contro la struttura e l’inversione dell’onere probatorio, mentre permane la prescrizione ex art. 2043 contro il professionista (quinquennale) e la comune regola stabilita dall’art. 2697 C.C. cioè l’onere per il paziente di dimostrare quanto lamentato.
La legge finalmente convincerà anche gli avvocati meno informati, che conviene citare in giudizio esclusivamente la struttura sanitaria e non il professionista, con maggior libertà per questo di non tediarsi della chiamata in causa, almeno fino a quando magari si farà viva l’azienda per pretendere il rimborso del risarcimento.
Il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’art. 8 soffre di una palese incompatibilità tra la rubricazione e il contenuto perché richiamando l’art. 696-bis C.P.C., introduce non la conciliazione ma la mediazione attraverso un accertamento tecnico preventivo, procedura obbligatoria già prevista dalla legge n. 28/2010.
La legge Gelli, in verità, richiama procedure e regole già previste dal nostro ordinamento, come se vi fosse la necessità di descriverle e confermarle, ma visto che si impegna nella stesura, ci si aspettava una maggiore analisi e regolamentazione e non un inutile e quantomeno frettoloso richiamo.
Grave poi, per quanto conquistato in termini di autonomia dalle professioni sanitarie è l’art. 15.
Il giudice deve nominare necessariamente non un consulente ma almeno due: un medico legale, sempre, e uno specialista della materia che abbia competenze conciliative.
In poche parole, la legge Gelli, anche per le vertenze giudiziarie che attengono squisitamente la responsabilità infermieristica, suggerisce la superiorità scientifica e tecnica del medico sull’infermiere che viene relegato a specialista consulente del medico legale, vero dominus della perizia, che può aiutare le parti in causa a trovare una soluzione bonaria.
Oltre ad essere competente nelle materie peritali, l’infermiere coadiutore del medico (come l’infermiere generico era coadiutore del professionale e quindi gerarchicamente sotto-ordinato) dovrà dare prova di ulteriori competenze in ambito conciliativo.
Ciò significa che il master oggi diffusamente offerto dovrà includere idonei percorsi formativi e magari subire una idonea ridenominazione in: Infermieristica Legale e Tecniche Conciliative, affinché il giudice possa accertare con sicurezza e senza contestazioni l’ulteriore competenza dell’infermiere legale.
E se il medico legale, vero dominus della consulenza e della perizia (si badi bene che la norma incide anche sul processo penale e non solo su quello civile) non è d’accordo con le considerazioni dell’infermiere legale?
Oggi nessuno può rispondere a questa domanda ma non nascondo che la costruzione lessicale della norma potrebbe far protendere verso una maggiore considerazione del medico ai danni dell’infermiere.
L’autonomia sancita dal D.M. n. 739/1994 sembra scomparire dinanzi la legge Gelli e lo scenario futuro che si dipana appare terrificante, a sostegno di quanto ormai da anni vado a predicare sopportando innumerevoli contestazioni da alcuni sindacati e alcuni collegi IPASVI e cioè che abbiamo imboccato una strada che procede sempre più verso la catastrofe professionale, nella totale inerzia di chi dovrebbe difenderci così come difende prontamente le posizioni organizzative e il pagamento della tassa IPASVI.
Lascia basiti constatare come una norma del genere abbia potuto prendere forma in Senato, nonostante la senatrice Silvestro abbia rappresentato per anni, in seno alla presidenza della federazione, la nostra professione.
L’unica cosa tangibile della nostra rappresentante in senato è la sua assenza, l’essere senza essere!
Non ho letto una nota sulla questione, non ho sentito un allarme sul pericolo imminente di ricadere nuovamente sulla vecchia retorica del medico che comanda e dell’infermiere che esegue; più che retorica un vero è proprio stato di cose che Gelli ripropone e granitica con una legge dello Stato, in nome del popolo italiano, nella totale inedia e complicità dei parlamentari infermieri.
Da cittadino italiano e da infermiere mi chiedo cosa stesse facendo o pensando l’on. Silvestro mentre questa legge prendeva forma e gli interessi della classe medica ne influenzavano la stesura.
Siamo abbandonati a noi stessi e questo ci costringe a cercare altri rappresentanti che siano almeno seri e coerenti rispetto agli attuali che guardano dalla finestra il nostro totale annientamento.
Se questo è il preludio delle competenze avanzate, allora rivoglio il mansionario; almeno riceverò maggiore protezione.
Ritornerò sull’argomento solo quando avrò una visione completa delle sfide offerte dalla nuova legge e quando potrò verificare i risultati dottrinali che presto mi saranno spiegati dai docenti di questo magnifico Master.
In definitiva, la legge in esame non deve essere considerata una riforma in tema di responsabilità professionale sanitaria perché conferma l’orientamento tradizionale, ma semplicemente un incipit al cambiamento, un punto dal quale iniziare a migliorare.
La legge ha il pregio di confermare l’abbandono della teoria paternalistica a favore di quella autodeterminista che privilegia la visione contrattuale dell’assistenza, nella quale la prestazione sanitaria deve essere concertata e modulata sulle scorta delle aspettative espresse nella fase consensuale del cliente, anziché imposta dalle esigenze di vita che per il paziente possono essere importanti quanto l’esistenza stessa.
Nelle more di una maggiore chiarezza in merito, l’Associazione ADI monitorerà l’applicazione della legge per come è stata scritta, nonché la giurisprudenza di riferimento, attivandosi anche presso le parti politiche interessate alla revisione per verificare la possibilità di recuperare quel poco di autonomia e dignità che i nostri rappresentanti nazionali non hanno ancora spazzato via.
Spero che almeno la dott.ssa Mangiacavalli capisca l’importanza di attivarsi prontamente con spiccata sensibilità, io dal canto mio, mi ritengo onorato di essere infermiere tra i magistrati della Corte Suprema e di aver fatto sentire la mia voce, benché insignificante, durante i dibattiti in aula, perché possano ricordare anche la nostra esistenza nelle future revisioni sulla materia!
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