Roma 29.06.2018
In pochi si sono accorti che nel nuovo C.C.N.L. Comparto Sanità 2016-2018, appena sottoscritto dai sindacati maggiormente rappresentativi, è scomparso l’istituto della Mensa (come disciplinato dall’art. 29 del C.C.N.L.I. del 20 settembre 2001 e all’art. 4 del C.C.N.L. del 31 luglio 2009).
All’art. 27, sotto il nomen iuris “Orario di lavoro”, al comma 4 si legge, sommariamente, quanto segue: “Qualora la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore, il personale, purché non in turno, ha diritto a beneficiare di una pausa di almeno 30 minuti al fine del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto, … La durata della pausa e la sua collocazione temporale, sono definite in funzione della tipologia di orario di lavoro nella quale la pausa è inserita, nonché in relazione alla disponibilità di eventuali servizi di ristoro, alla dislocazione delle sedi dell’Azienda o Ente nella città, alla dimensione della stessa città …”.
Il problema che sorge dall’analisi della norma è di tipo esegetico e mi dispiace che nessun sindacato firmatario l’abbia sollevato.
Sono centinaia le richieste pervenute all’A.A.D.I. sulla questio iuris, perché l’interpretazione che forniscono alcune aziende alla previsione “purché non in turno”, sembrerebbe escludere il diritto alla mensa (rectius: pasto) al personale turnista.
La questione è seria tanto quanto spinosa, pertanto l’A.A.D.I. fornirà la propria interpretazione sperando che coincida con quella del Ministero della Salute, interpellato dal Sindacato COINA a pronunciarsi sulla vicenda.
Il pasto, anche in virtù dell’art. 8 del D.Lgs. 8 aprile 2003 n. 66 che fissa il termine minimo di 6 ore perché si maturi tale diritto soggettivo perfetto (posto a carico del proprio datore di lavoro), rientra tra le facultas agendi e quindi non è obbligatorio ma una potestà prestatoris.
La normativa contrattuale precedente imponeva la fruizione della pausa mensa fuori l’orario di lavoro (art. 29, co. 3, p.p. C.C.N.L.I. 20.09.2001) ma tale locuzione si prestava anche a diverse interpretazioni che le aziende, per resistere alla richiesta giudiziale dei buoni pasto, sfruttavano nel senso di permettere l’uso della mensa alla fine del turno.
Nella causa Di Fresco/Azienda Policlinico Umberto I + Università Sapienza di Roma, la questione, che terminò in Cassazione, si chiarì nel senso espresso dal lavoratore e cioè che per “fuori l’orario di lavoro” non si dovesse intendere alla fine del turno, bensì l’interruzione del rapporto di lavoro cioè l’interruzione dell’assistenza e del vincolo di garanzia nei confronti del paziente/utente.
Quindi per “fuori l’orario di lavoro” si intende che durante la pausa mensa il lavoratore è estraniato dall’attività lavorativa e consuma il pasto come libero cittadino e non come lavoratore, vincolandosi esclusivamente per la modalità di fruizione dell’interruzione temporanea, tanto è vero che timbra l’uscita dal turno e, alla fine del pasto, timbra l’entrata in turno, assumendosi così gli obblighi contrattuali che concernono il ruolo di infermiere.
Durante la pausa mensa l’infermiere non risponde di quanto possa accadere nel servizio ove è assegnato perché il rapporto di lavoro è interrotto (fuori l’orario di lavoro).
Appena ritimbra ricomincia a trascorrere l’orario di lavoro precedentemente interrotto che prosegue fino allo scadere dell’orario finale, completando il periodo previsto dal contratto relativo all’orario di lavoro giornaliero.
Quindi la nuova locuzione è stata probabilmente motivata dal rendere maggiormente intuitivo il senso esegetico della norma, anche se in verità l’ha complicato (e non è l’unico punto di incertezza nel contratto, a dimostrazione che l’ARAN e i sindacati impegnati nella stesura de qua non riescono a rendere intelligibili i pensieri).
“Non in turno” significa che l’infermiere in turno non possa fruire della mensa?
Ricordiamo che la norma in questione vieta la fruizione della mensa ai lavoratori in turno: quindi vuol dire che gli infermieri in turno non potranno recarsi a mensa?
Prima di tutto si deve ricordare che, generalmente, gli infermieri non possono recarsi a mensa, non per via di questa norma, ma semplicemente perché l’amministrazione glielo impedirebbe per questioni di continuità assistenziale e di garanzia del paziente oltre che sulla base del principio di affidamento (e probabilmente anche l’ordine professionale, sulla scorta del codice deontologico, sarebbe d’accordo con il datore di lavoro) e proprio per tali motivi l’A.A.D.I. sta sostenendo cause per ottenere i buoni pasto in sostituzione del servizio mensa.
Ma ricordato ciò, ritorniamo alla locuzione in esame che, secondo quanto stabilito dall’art. 12 delle preleggi (nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse …) deve tener conto, per la sua corretta esegesi, degli altri elementi inclusi nella stessa norma e cioè:
orario di lavoro che eccede le 6 ore;
pausa di 30 minuti;
recupero energie psicofisiche.
Analizziamo questi 3 elementi che costituiscono il minimum del diritto perché si possa fruire del pasto:
orario di lavoro che eccede le 6 ore: se il diritto al pasto scatta dopo 6 ore ciò significa che il pasto non debba essere necessariamente consumato alla fine del turno, altrimenti la norma avrebbe specificamente previsto una diversa struttura semantica, diretta a riconoscere il diritto al pasto a conclusione dell’orario di lavoro giornaliero.
Il fatto, invece, che si precisino 6 ore vuol dire che tale periodo è presupposto indefettibile perché si attivi la potestà di interrompere la prestazione lavorativa per fruire di una pausa. Infatti l’art. 8 del D.Lgs. n. 66/03 nomencla l’istituto giuridico in parola sotto la denominazione “Pause” e non “Mensa”, precisando che la pausa può essere consumata anche senza il pasto (“eventuale consumazione di un pasto”).
Tale esegesi appare corretta soprattutto se si concerta con l’ultima in esame, considerato che la pausa e cioè il pasto ha l’esclusiva funzione di recuperare da un lato la serenità compromessa dallo stress lavorativo (staccare la spina) e, dall’altro, reintegrare i liquidi e le calorie consumate (appagare la fame e la sete);
pausa di 30 minuti: se la locuzione in esame significasse che il pasto è consumabile dopo il turno, non si spiegherebbe la presenza di tale elemento nella norma.
Infatti per pausa si intende una breve interruzione con la prospettiva, al termine, di ricominciare quanto interrotto.
Inoltre il contratto di lavoro non può disporre del nostro tempo libero perché la materia è estranea al rapporto sinallagmatico a prestazioni corrispettive che si fonda sulla retribuzione oraria, quindi, una volta che abbiamo terminato di lavorare, nessuna norma (né tanto meno il contratto) potrebbe stabilire dove dobbiamo mangiare e per quanto tempo.
Pertanto la pausa di 30 minuti ha funzione intercalare, ponendosi tra due distinte attività lavorative che costituiscono la giornata di lavoro;
recupero energie psicofisiche: la finalità del pasto è stata appena spiegata e certamente il contratto non potrebbe imporci di recuperare le energie psicofisiche consumando un pasto nella mensa aziendale per 30 minuti.
Alla fine del servizio decidono i lavoratori dove mangiare, cosa mangiare e per quanto tempo sedersi a tavola, non l’azienda.
Quindi il senso deve essere necessariamente correlato ad una situazione giuridica che interrompe il lavoro, ma nel contempo ci impone un vincolo, ovvero la modalità di fruizione del pasto in quanto la prestazione lavorativa non si è conclusa ma è temporaneamente sospesa.
La giurisprudenza correla la fruizione del pasto non come beneficio del lavoratore, ma come beneficio del datore, cosicché, una volta che il lavoratore si è rifocillato, può essere nuovamente utilizzato per consumare energia lavorativa a favore del datore di lavoro.
E’ stato molto faticoso dare un senso ad una norma così importante ma sibillina; non è cambiato nulla rispetto alla precedente contrattazione se non che finalmente è specificato che il massimo periodo di lavoro sopportabile per il lavoratore è di 6 ore, oltre il quale può sospendere l’attività lavorativa; considerando che l’A.A.D.I. per anni ha impugnato delibere e leggi regionali che fissavano la fruizione del pasto dopo 8 ore e non 6, il C.C.N.L. ci da ragione.
Non è migliorato neppure il lessico contrattuale, comunque affronteremo altri istituti contrattuali di difficile lettura, ma per la questione mensa attendiamo la pronuncia del Ministero!
Direttivo AADI
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