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C’è sempre responsabilità della struttura sanitaria nei casi di malpractice, anche quando sussiste u

Il termine contratto di spedalità indica un contratto di prestazione d’opera atipico, che si instaura ogni qualvolta un soggetto si presenta presso una struttura sanitaria sia essa pubblica o privata, anche ambulatoriale, per avere prestazioni di tipo sanitario, laddove la responsabilità del medico dipendente dall’ente ospedaliero verso il paziente, è fondata sul contatto sociale instaurantesi tra quest’ultimo e il medico chiamato ad adempiere alla prestazione professionale dallo stesso convenuta con la struttura.

Questa prestazione si fonda sul contratto d’opera professionale in base al quale, il medico o l’infermiere è tenuto all’esercizio della propria attività nell’ambito dell’ente con il quale il paziente, entrandovi, ha stipulato un contratto, ricollegando ad esso, obblighi di comportamenti di varia natura diretti a garantire la tutela degli interessi emersi o esposti a pericolo in occasione di detto contatto e in ragione della prestazione sanitaria conseguente da eseguirsi.

Anche nel caso in cui il paziente sia ricoverato in una struttura sanitaria gestita in virtù di apposite convenzioni ad un soggetto diverso dal reale proprietario della struttura, nei casi in cui dai danni causati dai sanitari ivi operanti è tenuto a rispondere non quest’ultimo, bensì il soggetto che di tale struttura ha la diretta gestione, poiché è con l’azienda sanitaria che il paziente ha stipulato il contratto atipico di spedalità e non direttamente con la proprietà della struttura in convenzione.

Nel caso di specie, la sentenza molto complessa, poiché è costituita da un coacervo di concatenazioni di responsabilità dalle quali ogni soggetto attivo o passivo che sia, cerca di districarsi. Nella realtà dalla ricostruzione siffatta, i ginecologi dipendenti della Asl di Palermo, nello specifico del presidio ospedaliero, operano presso i locali della azienda ospedaliera X che li aveva loro concessi per inagibilità dei locali del presidio ospedaliero, del quale, i ginecologi erano in realtà dipendenti.

Il ricorso quindi in Cassazione dell’azienda ospedaliera condannata in I° e II° grado è nato poiché nelle deduzioni dei legali di parte, essi, ritenevano che la responsabilità dell’azienda ospedaliera che aveva concesso loro solo i locali in uso all’equipe ginecologica, fosse del tutto esclusa posto che, i componenti dell’equipe che aveva in realtà cagionato il danno erano dipendenti di altra struttura sanitaria e nella fattispecie del presidio ospedaliero della ASL Y, in quel momento ospitato presso la struttura dell’azienda X.

Ha affermato la Corte, che, era indiscussa la legittimazione passiva dell’azienda ospedaliera X, posto che la signora F era stata ricoverata proprio presso l’azienda in esame, e che per questi motivi l’azienda doveva garantire ad ella, la migliore e corretta assistenza, che non si sostanziava nella mera fornitura di prestazioni alberghiere (vitto, alloggio e servizi) ma anche nel mettere a disposizione della paziente tutto il proprio apparato organizzativo e strumentale.

Vieppiù che, la paziente era consapevole di essere stata ricoverata presso l’azienda ospedaliera de qua e per tali ragioni faceva affidamento sulle risorse strutturali e umane di tale struttura, senza per altro essere a conoscenza delle scelte organizzative e burocratiche che nel frattempo erano state adottate dall’azienda in seno alla convenzione con il presidio ospedaliero, la paziente era quindi del tutto inconsapevole di tali scelte, tali da aver poi compromesso l’esito delle risultanti prestazioni sanitarie, inoltre, per tale ragioni e in ossequio del principio di buona fede, visto il coacervo di competenze venutesi a creare di fatto per effetto di provvedimenti adottati che hanno provocato una evidente deroga rispetto agli ordinari modelli organizzativi ospedalieri, tutto ciò non deve comunque arrecare conseguenze pregiudizievoli per il paziente.

La responsabilità dell’esplicazione dell’attività anche del terzo direttamente consegue in capo al soggetto che se ne avvale secondo il principio del “cuius commoda eius et incommoda” (di chi sono i vantaggi sono anche gli svantaggi), più specificatamente dell’appropriazione o avvalimento dell’ attività altrui per l’adempimento di una propria obbligazione, comporta l’assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino.

Trattasi quindi non di responsabilità “culpa in eligendo” ma bensì, di responsabilità oggettiva dell’azienda ospedaliera.

In questo caso la struttura sanitaria è direttamente responsabile allorquando l’evento danno sia ascrivibile alla condotta colposa posta in essere dal sanitario delle cui attività essa si è comunque avvalsa pur se questi abbia effettuato un intervento di tipo diverso rispetto a quello originariamente pattuito con il paziente.

Nella specie, la debitrice e odierna ricorrente Azienda Ospedaliera, risponde quindi direttamente di tutte le ingerenze dannose che ai propri dipendenti, ai terzi preposti o ai debitori (in questo caso i sanitari) della cui opera comunque si è avvalsa perché sono state rese possibili dalla posizione conferitagli rispetto al creditore/danneggiato, e cioè dei danni che i medesimi hanno arrecato in ragione di quel particolare contatto cui sono risultati esposti nei loro confronti i creditori/danneggiati (il neonato, i genitori).

Dopo aver per altro confermato che la responsabilità dell’azienda ospedaliera non è esclusa in ragione dell’insussistenza di un rapporto contrattuale diretto che leghi il sanitario alla struttura sanitaria, si è quindi ritenuta la condotta dei sanitari colposa per non aver adempiuto con la dovuta diligenza alla prestazione contrattuale professionale cui erano obbligati in virtù del contatto sociale instauratosi con la paziente all’atto del suo ricovero e considerata quindi la sussistenza del nesso causale tra l’accertato inadempimento dei sanitari e l’evento dannoso cagionato (atrofia cerebrale frontale residua).

Inoltre, la Corte di merito ha altresì correttamente osservato che in questo caso si è dimostrato che i sanitari non agirono secondo i canoni della diligenza professionale dovuta nell’ambito del rapporto contrattuale, incombeva ai sanitari dimostrare la riconducibilità dell’evento dannoso verificatosi a una causa non imputabile alla loro condotta colposa.

Invece i sanitari non hanno fornito nessuna prova che, nonostante le loro accertate condotte negligenti, l’evento dannoso si sarebbe comunque verificato, limitandosi a indicare delle mere ipotesi non suffragate da riscontri concreti.

Avrebbero dovuto indicare quale sia stata l’altra e diversa causa imprevista e imprevedibile, né superabile con l’adeguata diligenza qualificata che ha determinato il danno.

La Corte quindi rigetta i ricorsi degli altri ricorrenti e invia di nuovo alla corte di appello di Palermo in diversa composizione per le valutazioni in merito alle spese.

In conclusione si può serenamente apprezzare che anche nei casi in cui la prestazione sanitaria sia effettuata anche da personale non direttamente dipendente della struttura, ma che per ragioni di organizzazione e di burocrazia è in appoggio presso di essa, non solo concorre al risarcimento del danno ma ne esclude di fatto la diretta legittimazione passiva del reale datore di lavoro dei sanitari

che hanno causato il danno escludendone di fatto la responsabilità in solido.

Rimane sempre in capo alla struttura sanitaria che offre il servizio l’obbligazione del risarcimento per non aver fornito gli strumenti adeguati al fine di espletare una prestazione sanitaria corretta e professionalmente diligente.

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