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Attività persecutoria e licenziamento a seguito di ricorso per demansionamento

Con ricorso al Tribunale di Reggio Calabria ex art. 700 cpc, un dipendente esponeva che, nonostante la professionalità manifestata nel corso del rapporto, i vertici Aziendali avevano posto in essere nei suoi confronti, una vera e propria attività persecutoria.

In particolare, il Presidente della struttura, pur mantenendo in capo al ricorrente la qualifica di quadro, lo aveva demansionato, spogliandolo di fatto delle funzioni di direttore del Centro, con un’attività preordinata e dolosa e con mortificazione della sua personalità.

Il giudice adito, con ordinanza depositata in data 8 gennaio 2010, accoglieva il ricorso, ordinando al datore di lavoro di assegnare nuovamente al ricorrente la qualifica e le mansioni di direttore del Centro ovvero di assegnargli diverse e concrete mansioni confacenti al profilo e alla professionalità raggiunta di quadro direttivo.

Con successiva nota, a seguito dell’ordinanza, il dipendente veniva licenziato “per ragioni inerenti l’organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa”, con la precisazione che l’organico della struttura prevedeva un’unica figura di quadro che si identificava con il direttore del Centro, il quale era già stato nominato con provvedimento del Consiglio Direttivo del 30 ottobre 2008.

Il dipendente licenziato decide di ricorrere al Tribunale di Reggio Calabria chiedendo dichiararsi nullo il licenziamento per illiceità dei motivi, essendo il provvedimento espulsivo fondato su ragioni ritorsive, ma il giudice adito escludendo il carattere ritorsivo del recesso, dichiarava illegittimo il licenziamento perché privo di giustificato motivo oggettivo e condannava il datore di lavoro a

riassumere il ricorrente entro tre giorni o, in alternativa, a risarcirgli il danno versandogli una indennità pari a sei mensilità di retribuzione.

Il dipendente però, insiste nella richiesta di declaratoria di nullità del licenziamento perché ritorsivo e chiede l’applicazione della tutela reale. Con sentenza depositata il 4 febbraio 2014 la Corte d’appello di Reggio Calabria accoglie il gravame e dichiara nullo il licenziamento in quanto ritorsivo, condannando il datore di lavoro a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, con conseguente corresponsione delle retribuzioni globali di fatto dalla data del licenziamento sino a quella dell’effettiva reintegra.

Il datore di lavoro non soddisfatto ricorre in cassazione deducendo che la sentenza impugnata è errata per avere applicato una semplice equazione matematica: “poiché il giudice di primo grado ha dichiarato illegittimo il licenziamento e sul punto non è stato proposto appello incidentale da parte del datore di lavoro, tanto bastava per ritenere che il provvedimento espulsivo fosse sorretto da ragioni di carattere ritorsivo”.

Aggiunge il datore di lavoro ricorrente che, a parte il fatto che un intento vendicativo non è ipotizzabile quando, come nella specie, il provvedimento espulsivo è stato disposto a seguito di una delibera collegiale adottata da quindici persone, affinchè ricorra l’ipotesi del licenziamento ritorsivo, occorre che tale motivo sia stato l’unico a determinare il recesso e che la ragione discriminatoria o ritorsiva o l’intento di rappresaglia vengano concretamente dimostrati dal dipendente, anche con presunzioni. Nella fattispecie in esame la Corte di merito non si è soffermata a valutare le effettive motivazioni che hanno sorretto il licenziamento, ma ha ritenuto, con motivazione abnorme, che l’accertata illegittimità del recesso consentisse, in via presuntiva, “di individuare l’intento di rappresaglia celato dietro motivazioni fittizie”, senza compiere un’analisi approfondita degli aspetti rilevanti di tutta la vicenda. Tale analisi, prosegue il ricorrente, non è preclusa in questa sede, trattandosi di sindacato sulla ripartizione dell’onere probatorio e sull’interpretazione di norme c.d. elastiche.

La suprema Corte con sentenza n. 22323/16 rigetta il ricorso deducendo che: il “divieto di licenziamento discriminatorio, sancito dall’art. 4 della legge n. 604 del 1966, dall’art. 15 St. lav. e dall’art. 3 della legge n. 108 del 1990, è suscettibile – in base all’art. 3 Cost. e sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in particolare, nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell’art. 13 nel Trattato CE, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997 – di interpretazione estensiva, sicché l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, ossia dell’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essendo necessario, in tali casi, dimostrare, anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall’intento ritorsivo” (Cass. 3 dicembre 2015 n. 24648; Cass. 8 agosto 2011 n. 17087; Cass. 18 marzo 2011 n. 6282).

La Corte di merito ha ritenuto ritorsivo il licenziamento non solo perché il giudice di primo grado ha escluso la sussistenza del giustificato motivo di licenziamento, ma anche perché, come accertato dal Tribunale con sentenza passata in giudicato, era stata dedotta a giustificazione del licenziamento una circostanza non vera, e cioè che all’interno dell’azienda vi fosse un’unica figura di quadro direttivo, costituita dal direttore, circostanza questa non vera, atteso che l’odierno ricorrente, con lettera, venne invitato a prestare servizio all’interno della struttura mantenendo la qualifica di quadro direttivo e la medesima posizione economica.

La Corte quindi rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi ed € 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15{337a32c266fa313013ee5f2ebb2343de8037a626bf240e7785350e77a1e683bc} ed accessori di legge.

Il Direttivo AADI

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